La paura come strumento
«La paura è il contachilometri dell’autoconservazione. La paura è come la fame e come il sonno: non è maligna o malvagia. Quando hai fame, se non mangi, muori; quando hai sonno, se non dormi, cadi per terra; quando hai paura, se non l’ascolti, ti fai male. Non deve solo degerarare in panico, è lì che sta la razionalità di gestione della paura. Ma la paura è quella che mi ha fatto tornare a casa, è quella che mi permette di avere ancora tutte le dita delle mani e dei piedi. Io me la sono fatta sotto alcune volte e, umanamente, ho ascoltato la fifa, che era un campanello d’allarme». Cit. Simone Moro, alpinista.
Questa è una delle migliori contestualizzazioni del concetto di paura che chi scrive abbia mai ascoltato o letto. È particolarmente interessante, in quanto prodotta da chi, spingendosi all’estremo, si trova continuamente in contatto con quella vocina interiore che fa da guida, segnalando il confine da non oltrepassare per conservare la vita. Questa lettura della paura è una rivalutazione della stessa, laddove, sempre più spesso, si tende a volerla rinnegare, occultare, esorcizzare o, a livello di massimi sistemi, utilizzare in forma amplificata e degenerata.
Riprendendo l’esempio guida dell’alpinista, seguire il segnale lanciatoci della paura, in quanto sistema di protezione della vita stessa, può significare dover abortire l’obiettivo di una spedizione a pochi metri dal raggiungimento della vetta. Nel sistema di valori competitivi in cui viviamo ciò significherebbe andare incontro al fallimento, laddove l’obiettivo fissato non ha trovato compimento. In questa società, dove la parola d’ordine è competizione perenne, è inconcepibile l’accettazione del fallimento come normale passaggio di fase, che sposta esclusivamente in avanti il raggiungimento dell’obiettivo. Sempre più spesso si leggono casi di suicidi in giovane età all’apice di un fallimento non più occultabile all’esterno. Sono le scorie prodotte da una società dove la competizione atroce genera l’obbligo di centrare l’obiettivo, molto meglio se con tutti i canoni dell’efficienza, costi quel che costi. Al fallimento, infatti, conseguirebbe la svalutazione dell’individuo.
Politicamente, l’immagine di questo schema la troviamo giornalmente da decenni: le crisi. Le riforme strutturali non sono mai abbastanza per raggiungere l’obiettivo della competitività, allora servono «più riforme strutturali» per far riscoprire la «durezza del vivere» a un corpo sociale descritto come composto da falliti (tutti tranne uno, se stessi, per sessanta milioni di persone). In questo schema perverso, la paura non viene utilizzata costruttivamente per salvarsi dal pericolo per poi far tesoro dell’esperienza acquisita, ma è strumentalizzata per generare il panico (da cui discende l’apertura di finestre d’odio), lo strumento di controllo sociale per eccellenza. Esso è il fattore scatenante di una sottomissione sociale.
La tendenza politica sempre più incisiva negli ultimi decenni è la necessità di cavalcare le crisi facendo leva sulle emozioni degli individui. Riprendendo, in tema di emergenza terrorismo, l’intervento di Letta al Corriere post strage di Nizza, leggiamo:
Pare più una degenerazione della paura in panico che, come spiegato nella citazione d’apertura, è proprio ciò che non dovrebbe avvenire. Ciò è totalmente funzionale all’utilizzo politico dell’emozione: nell’emergenza non c’è tempo per riflettere e la conseguenza naturale è l’affidamento del corpo sociale al salvatore di turno. Un processo circolare, perpetuo, funzionale all’accentramento del potere, dove a cambiare è solo l’oggetto dell’emergenza. Nel susseguirsi delle crisi che investono la società, la comunicazione non è certamente esente da colpe, in quanto tende a gettare benzina sul fuoco più che lavorare per costruire una razionalità.
Allora serve resettare: la paura è un’emozione che in sé non ha connotazioni. Come potrebbe essere negativa un’emozione funzionale alla sopravvivenza? È la lettura sociale che essa assume a connotarla positivamente o negativamente. Non cavalcarla strumentalmente, riconoscendone la sua funzione vitale sarebbe una grande conquista.
Simone, ventottenne sardo, ha vagato in giovanissima età per il Piemonte, per poi far ritorno nell’isola che lo richiamava. Ama scrivere su tematiche politiche ed economiche. Legge per limitare la sua ignoranza.