La questione dosaggi del vaccino di Oxford e AstraZeneca: less is more?

Il protocollo di somministrazione più efficace del vaccino di Oxford sembra essere stato scoperto «per errore».  Che cosa significa? Cambia qualcosa? Di seguito, cercheremo di rispondere a queste domande.

L’entusiasmo sull’efficacia del vaccino di Oxford e AstraZeneca, che sembra offrire una migliore protezione nel dosaggio più basso, è stato in parte stemperato dall’ammissione, da parte della casa farmaceutica, di un iniziale errore per difetto nella somministrazione. I 2741 volontari che hanno ricevuto la prima mezza dose del vaccino e poi una intera a un mese di distanza, hanno ottenuto un’efficacia del 90%; nelle 8895 persone che hanno avuto due dosaggi pieni a distanza di un mesa, l’efficacia è stata del 62%. Tuttavia, stando a quanto emerso in queste settimane, il dosaggio inferiore non era previsto nei piani iniziali: scoprire che funziona ancora meglio è stata quella che in ricerca si definisce serendipità, un incredibile colpo di fortuna.

I dettagli dell’errore non sono stati spiegati del tutto, ma il pasticcio iniziale non ha pregiudicato la sicurezza del vaccino né la continuazione dello studio. Il comitato che supervisionava la sperimentazione è stato avvisato dell’accaduto e si è deciso di proseguire con due gruppi e due dosaggi differenti, un’intuizione che si è rivelata utile e che permetterà forse di vaccinare più persone con il vaccino disponibile.

L’accaduto ha causato allo stesso tempo anche una certa confusione sui dati di efficacia. Ne sono stati comunicati tre: 90% (una dose e mezza), 62% (due dosi piene) e un 70% che dovrebbe essere una media tra i due risultati precedenti, ma non lo è. Come ha riassunto l’immunologo David Salisbury in un’intervista a BBC: «Si sono presi due studi in cui sono stati usati diversi dosaggi e sono stati usati per arrivare a un valore composito che non rappresenta nessuno dei due». È un problema che nasce dalla scienza fatta con i comunicati stampa e che sarà molto probabilmente risolto quando tutti  i dati dei vaccini saranno disponibili in peer-review.

Quello che è accaduto, quindi, cambia le cose? Per il momento no, per diverse ragioni. La FDA americana ha stabilito che un vaccino anti-covid debba avere un’efficacia di almeno il 50% per essere di utilità nella pandemia; anche se il valore di efficacia del vaccino di Oxford dovesse essere il più basso tra quelli riportati, supererebbe abbondantemente questa asticella. AstraZeneca ha inoltre dichiarato che, ora che dal dosaggio inferiore è emersa una migliore efficacia, occorrerà validare questo dato con un altro studio specifico, che non dovrebbe comunque ritardare il processo di approvazione già in corso per la distribuzione del vaccino.

Un nodo da scegliere riguarda l’età dei partecipanti che hanno ricevuto la dose inferiore: da quanto è emerso finora, questo regime sarebbe stato somministrato all’inizio del trial, quando i partecipanti reclutati avevano un’età compresa tra i 18 e i 55 anni. L’assenza di anziani in questo gruppo potrebbe avere influito sui dati di efficacia, perché il sistema immunitario degli anziani è notoriamente meno responsivo ai vaccini. Tuttavia, i dati di fase 2 del vaccino di Oxford, pubblicati sull’autorevole rivista Lancet, dimostrano una potente attivazione immunitaria in tutte le età, anche negli anziani.

L’ottima notizia, per il momento, è che ci sono tre vaccini molto promettenti in via di approvazione, che saranno in grado di salvare centinaia di migliaia di vite. Non era scontato arrivarci così in fretta, ma neanche arrivarci del tutto: da tempo si cercano vaccini per altre malattie pandemiche come l’infezione di HIV e la malaria, ma non sono stati ancora trovati.