La rivolta richiede la politica
Da Bologna a Palermo e Milano, dal capoluogo della rossa Emilia Romagna a quello della Lombardia di Fontana, il tour delle sardine per le piazze d’Italia sembra riscuotere successo in ogni angolo dello Stivale. Nato meno di un mese fa sui social, fino a poco tempo prima regno indiscusso dell’acerrimo nemico Matteo Salvini, il non-movimento delle sardine rappresenta indiscutibilmente l’ultimo fenomeno mediatico del Paese. Eppure, nonostante le buone intenzioni ed azioni che lo animano, non si può fare a meno di riconoscergli un errore, quello di rifiutare l’etichetta di movimento politico, che è segnale insieme preoccupante ed esemplificativo dell’atteggiamento disilluso riservato alla politica negli ultimi tempi.
Partiamo da un semplice presupposto: definire un movimento come «politico« non significa necessariamente collocarlo tra i sostenitori di questo o quel partito, se questa è la preoccupazione che ha spinto i fondatori delle sardine a rifiutare qualsiasi elemento di associazione tra il movimento e la politica. In fin dei conti, non è impensabile che parlare di un movimento sociale facendo riferimento alla sua incontestabile natura politica possa, in un momento storico in cui la politica sembra essersi spenta e i partiti aver perso di vista i cittadini, risultare controproducente se non, nella più estrema delle interpretazioni, un insulto.
Nel corso dell’ultimo anno le sardine non sono state certo le prime, né probabilmente saranno le ultime, a scendere in piazza per esprimere dissenso nei confronti del governo in particolare e della direzione assunta dalla politica in generale. A fine 2018 è stata la volta delle manifestazioni a sostegno di Mimmo Lucano, a marzo 2019 a riempire le piazze lasciate vuote dai partiti è stato il corteo antirazzista People che a Milano ha raccolto migliaia di persone e che, dopo essersi conquistato le prime pagine delle testate nazionali all’indomani della manifestazione, è scomparso nel nulla.
Che differenza avrebbe fatto se insieme alle sardine o nel mezzo della manifestazione di People si fossero scorte, tra i volti di determinazione dei partecipanti, anche le bandiere e i simboli delle fazioni politiche che in nome di quei valori dovrebbero agire? In una recente puntata di «Otto e mezzo» ad una dichiarazione di Alessandro Sallusti sulla presunta e sospettosa affiliazione tra PD e movimento delle sardine, Cacciari e Cuperlo hanno commentato, quasi all’unisono, «Magari!». Un augurio che non potrebbe suonare meno disperato di così, eppure, considerati i precedenti e la situazione attuale, non potrebbe essere diversamente. Fino a quando tanto i movimenti sociali quanto i partiti politici rifiuteranno di prendere la parola l’uno per l’altro, il rischio di dover assistere al declino quasi simultaneo prima degli uni e poi degli altri è da considerarsi un fatto inevitabile.
Se è vero che alla base della piramide della partecipazione politica si collocano tutte quelle forme di associazionismo, più o meno istituzionalizzato, che rendono possibile e animano il dibattito sociale, è anche vero che la rivolta richiede la politica perché senza la politica slogan come «L’Italia non si Lega» rimangono solo belle parole urlate al vento, la cui concretizzazione tarderà inevitabilmente a presentarsi.
Studentessa universitaria di Sociologia e aspirante giornalista.
Mi cimento in articoli di attualità e cultura con un occhio di riguardo per le questioni sociali.