La sindrome di Bruxelles: se anche gli euroscettici chiedono più Europa
Che il debito pubblico italiano si registra in ascesa non è una bufala; i dati confermano che nel 2018 esso è cresciuto di 53 miliardi, toccando quasi i 2.317 miliardi di euro. Ammesso, dunque, che è indubbio questo aumento, ora si deve analizzare da che cosa esso dipende e quali possono essere i ripari ai quali correre.
Sappiamo bene qual è il pensiero di molti italiani su questo argomento: l’amministrazione pubblica del nostro Paese ha permesso a se stessa e al popolo di gozzovigliare per decenni sperperando denaro, così ora siamo costretti a pagarne le conseguenze. Insomma, dopo aver vissuto al di sopra delle nostre possibilità, adesso è indispensabile esercitare la pressione delle forbici sulla spesa pubblica per far finalmente quadrare i conti.
Al contrario, una minoranza sempre più folta denuncia che quella narrazione è del tutto mendace, frutto di una macchinazione politica e mediatica per indurci ad accettare l’indietreggiare dello Stato e facilitare il subentro del libero mercato laddove prima erano gli apparati statali a operare esclusivamente. Chi prende questa posizione fa notare che il debito pubblico ha incominciato a impennare a partire dal 1981, anno in cui venne sancito il divorzio tra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia: da lì in poi quest’ultima smise di acquistare i titoli di stato rimasti invenduti, favorendo di fatto il potere degli investitori di imporre tassi di interesse per loro più proficui, naturalmente sborsati dallo Stato, costretto a indebitarsi ulteriormente per adempiere.
Coloro che temono l’avanzata del debito pubblico verso livelli celestiali credono fermamente nell’importanza dell’Unione Europea, la quale, coi vincoli di bilancio che ha imposto e la sua incessante vigilanza sulla nostra finanza statale, mira ad arginare i pericoli derivanti da un indebitamento eccessivo; essi, in molti casi, non considerano il ruolo della banca centrale, ma si concentrano esclusivamente sulle percentuali di deficit che occorre, a loro avviso, non sforare per non incrementare il debito.
Al contrario, chi ha un approccio alla questione molto meno angosciato e, anzi, infastidito da questa demonizzazione, pone l’accento sulla necessità di una banca centrale che espleti la funzione di prestatrice di ultima istanza.
Queste due visioni, apparentemente così distanti, hanno tuttavia un punto di congiunzione. Se i paladini dell’austerità sono fermamente devoti alla dea Unione Europea, anche dall’altra parte della barricata vi sono soggetti che, forse inconsapevolmente, spingono per un rafforzamento di quest’organismo. Infatti, pur reputandosi sovranisti e, dunque, sostenitori dell’unità e dell’indipendenza della Repubblica Italiana, essi cadono nel tranello rappresentato dall’art 125 TFUE: «L’Unione non risponde né si fa carico degli impegni assunti dalle amministrazioni statali, dagli enti regionali, locali, o altri enti pubblici, da altri organismi di diritto pubblico o da imprese pubbliche di qualsiasi Stato membro, fatte salve le garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto economico specifico. Gli Stati membri non sono responsabili né subentrano agli impegni dell’amministrazione statale, degli enti regionali, locali o degli altri enti pubblici, di altri organismi di diritto pubblico o di imprese pubbliche di un altro Stato membro, fatte salve le garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto specifico».
In sostanza, ogni stato, pur subendo continue intromissioni in materia economica in virtù delle avvenute cessioni di sovranità, deve farsi carico del proprio debito, mentre l’UE se ne lava le mani. Com’è noto, la BCE, salvo progetti temporanei di quantitative easing, non tutela i titoli di stato dalla speculazione. Non a caso, gli interessi sui BTP sono in rialzo (1,71% vs 0,56 di un anno fa). Così, la soluzione presentata da alcuni, pur essendo fortemente critici nei confronti dei trattati, è che sia la Banca Centrale Europea a ricoprire il ruolo di prestatrice di ultima istanza che, con tutti i risvolti negativi che abbiamo delineato, attualmente è vacante. Ecco che qui le due fazioni a prima vista opposte si stringono la mano: entrambe protendono per conferire maggiori poteri all’Unione Europea. Sì, perché rafforzare le mansioni di Francoforte significa allontanarsi dalla riconquista della sovranità monetaria e compiere un passo in avanti verso gli Stati Uniti d’Europa.
Insomma, persino chi dubita della bontà delle istituzioni europee rischia di cadere nella sindrome di Bruxelles, chiedendo, ingenuamente, più Europa e minando ancora più incisivamente la sorte degli stati nazionali.
Classe 1995, laureata in giurisprudenza.
Il diritto e la politica sono il mio pane quotidiano, la mia croce e delizia.
Vi rassicuro: le frasi fatte solo nelle informazioni biografiche.