L’Africa di Descalzi, il principe del petrolio
Si tratta dell’uomo che tiene in pugno 27mila chilometri quadrati del territorio libico, che, spadroneggiando su francesi e inglesi, detiene oltre il 45% della produzione di gas e petrolio libico, che, elargitore di ciò che dai libici è definito patrimonio nazionale, domina solidamente perché incontrastato da ogni fazione combattente. E le distese desertiche dove esercita il suo potere non finiscono qui. Algeria, Nigeria, Mozambico e Congo, sono solo quattro dei 67 paesi da cui rinviene 1,85 milioni di barili al giorno. Le sue scelte orientano la politica estera italiana. La sua dipendenza dall’acquisto del gas naturale russo, pari nel 2018 al 40% del fabbisogno nazionale, conduce, infatti, ogni governo nascente alla stretta di relazioni amichevoli con il leader del Cremlino.
Il suo nome è Claudio Descalzi. Classe 1955, amministratore delegato di Eni dal 2014, nominato da Renzi, poi riconfermato da Gentiloni (2017) e da Conte (2018), ha ricevuto nel 2018 uno stipendio monetario pari a 5,936 milioni di euro e, secondo l’Osservatorio permanente di Reputation Science, costituisce nel 2019 il terzo top manager italiano con la più alta reputazione online. La vertiginosa crescita in termini di produzione fatta registrare negli ultimi trimestri dalla multinazionale italiana, controllata per il 30% da Cassa Depositi e Prestiti e dal MEF, sembrerebbe convalidare l’eccellente performance dei suoi vertici, ma, in anni in cui il livello di depredazione delle risorse continentali africane e di migrazione volontaria e forzata raggiunge cifre incontrollabili, le continue ombre ripetutamente rilanciate da inchieste giornalistiche e giudiziarie non possono che allarmare i curatori degli interessi nazionali.
Il trionfale successo in Eni di Descalzi comincia nel 1997, quando, dopo essersi svestito dei panni di ingegnere di giacimento, diventa managing director della consociata Eni in Congo e acquista in pochi anni la fiducia di Paolo Scaroni, oggi presidente del Milan ed ex ad di Eni (2005-2014), ovvero il banchiere nominato da Silvio Berlusconi nel 2005, che nel 1992 fu arrestato nel corso di Mani Pulite e nel 1996 patteggiò 1 anno e 4 mesi per tangenti versate al PSI. Entrambi condividono una conoscenza pericolosa, Luigi Bisignani, il celebre lobbista noto come «il manager del potere nascosto» che, condannato nel processo Enimont, ha patteggiato 1 anno e 4 mesi nel processo P4. Proprio Bisignani, secondo gli inquirenti, si avvicinò a Descalzi nel 2011, quando quest’ultimo, in quanto direttore generale di Exploration & Production, era divenuto ormai il numero 2 di Eni. Di lì a poco, «prono alle pretese di Bisignani» (Giuseppina Barbara, GUP di Milano), Descalzi avrebbe acconsentito, insieme alla multinazionale inglese Shell, all’acquisto di OPL 245, l’immenso blocco petrolifero nigeriano dal valore di 9,23 miliardi di barili di greggio. Secondo l’accusa, la riserva di oro nero sarebbe stata ottenuta da una società segreta controllata da Dan Etete, ministro del petrolio nel governo del dittatore Sani Abacha. Il prezzo della licenza di sfruttamento? Ben un miliardo e 300 milioni di dollari, sottratti allo Stato nigeriano e dirottati nelle casse di Malabu oil&gas, azienda sempre riconducibile all’ex ministro Etete, che avrebbe poi inviato parte del denaro a politici, familiari e imprenditori gravitanti intorno all’orbita del Presidente Jonathan. Ad oggi Descalzi, Bisignani ed Etete sono imputati per corruzione internazionale e coinvolti in uno scandalo giudiziario e giornalistico che fa luce sulle modalità adoperate nella sottrazione di risorse alla Nigeria, il Paese con il più alto numero di persone al mondo che vivono in condizioni di povertà estrema, il Paese decimato dal disastro ambientale causato dall’estrazione del greggio nel delta del Niger e che, rappresentato dalla comunità Ikebiri, ha intentato un procedimento contro Eni e la sua controllata Naoc, in un’estrema lotta per l’acquisizione della giustizia che si sta svolgendo in Italia, presso il Tribunale di Milano. E proprio dalla Nigeria proviene la maggior fetta di migranti ambientali che sbarcano sulle coste italiane, una quota che rappresenta il 2,5% dei cittadini non comunitari residenti in Italia. Lo scandalo nigeriano, tuttavia, non sembra aver turbato né il riconfermato Presidente Conte, né tantomeno l’ex Ministro dell’Interno Matteo Salvini, che, appena depositate le motivazioni delle prime sentenze del GUP di Milano, ha dichiarato: «Stimo assolutamente Descalzi e ringrazio Descalzi ed Eni per quello che fanno in Italia e nel mondo».
Da notare che Eni e Shell, secondo una ricerca del Resources for Development Consulting, grazie alla struttura fiscale del contratto firmato per l’esplorazione del giacimento OPl 245, hanno goduto dell’opportunità di risparmiare in tasse ben 6 miliardi di dollari, una cifra perduta dalla Nigeria, che corrisponderebbe a due anni di spesa pubblica in sanità e istruzione.
Nei primi mesi del 2020 sarà il tempo per il nuovo governo giallorosso di indicare il nuovo vertice di Eni, riconfermando o annullando gli amministratori del cane a sei zampe. Anche da qui passa la discontinuità, anche da qui passa il futuro dell’Africa e dell’Europa.
Classe 2000, figlia del XXI secolo e delle sue contraddizioni. Ho conseguito la maturità presso il Liceo Classico Eschilo di Gela e frequento la facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Trento
http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/showText?tipodoc=Sindisp&leg=18&id=1123129
Questa è una porcata! Incrementano i costi di 2 miliardi, fanno vincere un’azienda malese Bumi Armada e perdere una società italiana Saipem. Nessuno ha detto nulla
Oramai eni è diventata il difensore dei regimi da quello egiziano a quello algerino. Oltre che essere coinvolta nei più grandi casi di corruzione
http://north-africa.com/2019/11/how-oil-companies-total-and-eni-are-being-dragged-into-the-center-of-the-algerian-political-crisis-accused-of-supporting-the-regime/