Le parole per raccontare un conflitto
Le parole hanno un peso: non è una scoperta del presente e nemmeno un capriccio del politicamente corretto a discutere del quale oggi si accendono in tanti. Le parole hanno un peso da sempre perché sono il mezzo attraverso cui il genere umano descrive per se stesso e per gli altri il mondo che lo circonda nel tentativo di trovarvi un senso, anche solo temporaneo. Che le cose stiano proprio così lo si capisce presto: da bambini quando l’uso di certi vocaboli troppo scurrili per la giovane età ci viene rimproverato e quando, cresciuti, ci rendiamo conto che esistono appellativi che non vogliamo sentirci dire e che non oseremmo rivolgere nemmeno il peggiore dei nostri nemici. Fanno parte di questa categoria tutti gli insulti, i frci e i neri gridati al vento e tutti quei termini che solo a sentirli, oggi, fanno accapponare la pelle. Esistono però altri vocaboli, di per sè neutrali, il cui peso rischia di passare inosservato e di cui un uso improprio rischia di distorcere il mondo stesso in cui viviamo.
Quello in corso in Medio Oriente nelle ultime settimane tra israeliani e palestinesi è un conflitto mai conclusosi, una storia che si ripete tristemente a cadenza quasi ciclica con modalità più o meno violente di volta in volta. Per narrarla si sono usate parole di ogni sorta: nel 1948 si trattava di riportare a casa il popolo ebraico dopo lo sterminio nei campi di concentramento nazi-fascisti, oggi è la volta dei primi scontri con il popolo palestinese che in quegli stessi territori si era insediato molto prima della nascita dello Stato di Israele e che da allora si trova a lottare per riappropriarsi di luoghi che, a tutti gli effetti, sono la sua casa.
Si crede che le pagine di storia e geopolitica debbano riempirsi di paroloni e frasi articolate: eppure non per forza è così. È vero che per descrivere con coscienza di causa i bombardamenti di Israele contro la striscia di Gaza e i razzi di Hamas contro Israele, così come il motore di queste azioni, le parole non bastano ma è anche vero che, se proprio si sente la necessità o si è chiamati a farlo, di tutte quelle che si trovano su un vocabolario alcune sono indubbiamente più adatte di altre. Per iniziare, ad esempio, uno dovrebbe dunque parlare di occupazione del territorio palestinese da parte di quello che si sarebbe imposto, con il benestare della comunità internazionale, come il popolo israeliano. Andando avanti con la storia poi il conflitto tra parti uguali assumerebbe le sembianze, che più gli si addicono, della lotta dei palestinesi per riappropriarsi dei territori da cui è stato forzatamente espulso.
Narrata così la storia del conflitto israelo-palestinese appare ben diversa, meno distorta e più puntuale. Questo non significa che chi vorrà raccontarla in questi termini avrà scelto di darne una visione di parte: al contrario avrà scelto di restare fedele alla realtà che lo circonda. Non necessariamente le parole scelte per raccontare una storia vogliono dirci da che parte stare, quello rimane pur sempre responsabilità nostra, ma in un certo senso è come se le parole ci tenessero per mano mentre cerchiamo di dar loro un significato per evitarci viaggi fin troppo fantasiosi.
Studentessa universitaria di Sociologia e aspirante giornalista.
Mi cimento in articoli di attualità e cultura con un occhio di riguardo per le questioni sociali.