Le vere ragioni di ArcelorMittal
Su un’ampia distesa di parchi minerali vuoti, i mostri dal quale si è sollevata la morte, potrebbe presto accendersi «la battaglia giudiziaria del secolo», come prospettato dal premier Giuseppe Conte in occasione della lettera integrale di recesso voluta dai vertici di ArcelorMittal. Il colosso franco-indiano ha, infatti, invocato l’abrogazione dello scudo penale nel Decreto Legge Imprese e il clima di generale ostilità generato da una magistratura opprimente quali valide motivazioni per abbandonare il maggior complesso europeo deputato alla lavorazione dell’acciaio.
15mila lavoratori a rischio, 5milioni di tonnellate d’acciaio perdute, investimenti ambientali dal valore di 1,1 miliardi destinati all’oblio, una perdita complessiva di 24 miliardi di euro, pari all’1,35 per cento cumulato della ricchezza nazionale, con devastanti ricadute per la siderurgia italiana, che è seconda a livello europeo e decima a livello mondiale, sono i drastici effetti che, secondo l’analisi econometrica di Svimez, la chiusura dell’Ilva potrebbe comportare. Così, mentre la trattativa fra le massime figure di Mittal e i rappresentanti governativi procede di pari passo con il lavoro della quattordicesima sezione del Tribunale di Milano, chiamata, nell’udienza del prossimo 27 novembre, a rispondere in merito al ricorso d’urgenza dei nuovi commissari straordinari, intorno alle tristi ciminiere si espande l’ipotesi del deserto.
Curiosamente il mondo dell’acciaio non sembra sorridere neanche in Polonia, negli Stati Uniti d’America e in Sudafrica. I tre altoforni di Cracovia e Dabrowca Gornicza saranno, infatti, sottoposti a un blocco indeterminato delle operazioni primarie a partire dal 23 novembre, mentre in terra statunitense si procederà allo spegnimento di uno degli altoforni di Indiana Harbor, collocata nell’area di Chicago, ed entro il primo trimestre del 2020 si darà avvio ad un procedimento di liquidazione per lo stabilimento siderurgico sudafricano di Saldanha.
Quale attore potrebbe aver mai impresso tanta rapidità ad una contemporanea azione di blocco della produzione in plurime località del globo? Il suo nome è ArcelorMittal.
In tali scenari, tuttavia, nessun riferimento è attribuito agli ostacoli di una magistratura refrattaria al libero esercizio d’impresa, né si fa menzione all’impossibilità di attuare i dovuti investimenti ambientali. I nemici della famiglia Mittal, invece, sono dotati in Polonia, USA e Sudafrica di concreta solidità e acquisiscono il corpo della sgradita contrazione di domanda. In un comunicato proferito in occasione della trimestrale, ArcelorMittal aveva già chiaramente spiegato che massimo obiettivo della multinazionale è quella di migliorare le prestazioni, ridurre i costi, adattare il livello della produzione e garantire un flusso di cassa positivo e costante.
Se all’analisi della recente condotta dell’azienda si unisce la visione dell’ultimo intervento di Moody’s, l’agenzia di rating che ha effettuato una revisione dell’outlook di ArcelorMittal da stabile a negativo con la motivazione che la domanda calante ha influito sulla riduzione degli utili e costringe il gigante dell’acciaio ad un tempestivo successo della risoluzione del contratto che lo impegna in Ilva, si intuisce come l’arrivederci di ArcelorMittal sia da imputare a ragioni che esulano dalla magistratura italiana, ma abbiano piuttosto a che fare con una generale crisi dell’acciaio che il colosso non è intenzionato ad affrontare nel rispetto degli obblighi previsti dal contratto. Gli investimenti ambientali e industriali, nonché l’obbligo del mantenimento dei livelli occupazionali, fissati dal contratto di affitto, mal si conciliano, infatti, con le sopravvenute esigenze di una multinazionale che opera nel mondo per veicolare interessi contrastanti con la riqualificazione graduale e a lunga durata del polo tarantino.
Così, nel momento in cui l’invocazione dello scudo penale sembra agitarsi quale vuoto pretesto e la magistratura italiana indaga circa l’effettiva sussistenza di una crisi pilotata, che, secondo l’accusa andrebbe ricondotta al chiaro intento di uccidere un importante concorrente sul mercato europeo, non può che risultare profetico l’intervento di ArcelorMittal in Romania nel 2003.
Nel corso delle elezioni politiche britanniche del 2001 Lakshmi Mittal, presidente dell’attuale multinazionale, staccò un assegno da 125mile sterline al Partito Laburista di Tony Blaire, che, divenuto primo ministro, scrisse prontamente una lettera al suo pari in Romania, per affermare che la vendita del secolare centro siderurgico di Hunedoara avrebbe aiutato la Romania nell’accesso all’Unione Europea. Nel 2007 la Romania sarebbe entrata nell’UE, mentre quel che era rimasto dell’azienda di stato del leader Ceausescu, un imponente complesso industriale fondato nel 1884 e contenente ben 20mila impiegati, sarebbe stato trasformato in uno stabilimento periferico e succursale, che nel 2011 vantava soltanto 700 dipendenti. Di lì a poco, del resto, nel 2012, duri scontri per Mittal sarebbero nati con il governo francese, rifiutante a Florange la dichiarata chiusura di due altoforni e il licenziamento di 600 lavoratori. «Non vogliamo più Mittal in Francia, non vogliamo più i suoi metodi, i metodi che rivelano il non rispetto per gli impegni, i ricatti e le minacce» furono le tuonanti parole del ministro Mountebourg.
Siamo pronti anche noi a dire basta ai metodi, ai ricatti e alle minacce?
Classe 2000, figlia del XXI secolo e delle sue contraddizioni. Ho conseguito la maturità presso il Liceo Classico Eschilo di Gela e frequento la facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Trento