Lettera a Noa Pothoven, ragazza coraggiosa
Cara Noa,
dire che la vita è ingiusta non può consolare né te né chi tra ieri e oggi è venuto a conoscenza della tua storia. Avevi solo 17 anni e avevi patito cose che nessuno dovrebbe patire. Grazie alla tua morte abbiamo saputo delle violenze sessuali che hai dovuto subire. La prima a undici anni, poi di nuovo un anno dopo e poi un altro stupro, questa volta a opera di due uomini, quando avevi quattordici anni. Non ne avevi parlato con i tuoi genitori «per paura e vergogna». Sentivi il tuo corpo ancora sporco. Chi ha studiato parla di disturbo da stress post-traumatico, di depressione, di anoressia e di autolesionismo.
Ma queste sono parole che non fanno altro che rendere più freddi e asettici episodi veri di una vita vera, traumi concreti che ti hanno portato a lasciarti morire di fame e di sete, rassegnata a una sorte inaccettabile. E poi l’ultimo smacco: convinta di voler porre fine alle tue sofferenze avevi contattato una clinica dell’Aja specializzata in eutanasia e suicidio assistito. Ti hanno risposto di no, non eri idonea. Dovevi portare a termine il percorso di recupero dal trauma, dovevi crescere perché – evidentemente – secondo loro non eri abbastanza matura per poter decidere autonomamente della tua vita.
E allora hai dovuto fare da sola. Hai smesso di bere e di mangiare e hai approfittato del tempo che ti rimaneva per salutare per l’ultima volta le persone a cui volevi bene. Anche alla fine ti è toccato in sorte il peggiore dei destini. Una lunga agonia anziché una morte indolore.
Perdona chi parla senza sapere, chi si culla nelle sue certezze e nel fatto che gli altri debbano prendere le sue stesse decisioni. Anche papa Francesco ha offeso la tua memoria con un tweet in cui definisce eutanasia e suicidio assistito una «sconfitta per tutti» perché bisogna «prendersi cura e amare per ridare la speranza». Parole vuote, pronunciate da chi – per pura fortuna – non ha dovuto sopportare quello che hai sopportato tu.
Ovunque tu sia in questo momento, Noa, non leggere quello che stanno scrivendo su di te. Nessuno sa quello che hai passato, neanche chi ti scrive questa lettera. La tua scelta diventa legittima anche solo per il fatto che ognuno di noi deve avere il diritto di scegliere sulla propria vita. Scegliere significa anche scegliere di morire. Dire, come ha scritto Pietro Del Re su Repubblica, «Non c’erano più risposte da offrirle? Se lei ha davvero vinto la sua battaglia, noi abbiamo perso la nostra», significa pensare che qualunque trauma possa essere recuperato. Purtroppo non è sempre così.
Evidentemente non è stato così per te. Tre stupri tra gli undici e i quattordici anni sono ferite che non rimargineranno mai, l’unica cosa possibile è imparare a gestirle. Ma anche questo non è cosa semplice e ci sarà sempre chi decide di continuare a lottare e chi, stanco di sentirsi preso in giro dalla vita, non ha più voglia di combattere. Ed entrambe le scelte sono tanto coraggiose quanto legittime.
Tu avevi diciassette anni e la tua età a rendere ancora più impressionante la tua storia, però tu hai agito come una persona adulta. Hai deciso che cosa fare della tua vita, nonostante uno Stato che pretende di decidere anche se e quando dobbiamo morire, anche se tutto questo ha significato affrontare una fine tanto atroce quanto la vita che avevi deciso di abbandonare.
Non tutti i traumi possono essere sopportati. E decidere di non sopportare più non è un fallimento. È una scelta che non ha colpevoli. Né tu, né le persone che ti sono state vicine in questi anni avete sbagliato qualcosa. La depressione, anche se dovuta a traumi ben concreti, viene ancora sottovalutata, non venendo considerata una malattia – a volte grave, a volte gravissima – come tutte le altre.
Se tu avessi avuto un cancro terminale, per esempio, a nessuno sarebbe venuto in mente di scrivere che la tua morte è una sconfitta. Ma, nella percezione di chi non sa nulla ma pensa di sapere tantissimo, se una malattia ti uccide da dentro senza toccare il tuo corpo, allora è una malattia meno grave di quelle che ti lasciano in pace la mente ma ti distruggono il fisico. E questo è un ragionamento talmente inconsapevole da sfociare nell’idiozia.
La depressione viene troppo spesso confusa con una tristezza che può passare con l’amore e l’affetto dei propri cari. È una malattia che talvolta può venire curata, talvolta no.
Addio, Noa, spero che ovunque ti trovi tu stia meglio, liberata dal peso che hai dovuto sopportare per anni. Mi auguro che non ti arrivino le parole dei soloni delle vite degli altri. Dovevi avere il diritto a una morte pacifica e serena, non dovevi essere costretta a lasciarti andare. Chi di dovere dovrebbe scusarsi di questo, non di non esserti stato vicino.
Giornalista professionista e fotografo. Ho pubblicato vari libri tra storia, inchiesta giornalistica e fotografia
Bellissimo articolo, hai colto la reale fragilità di questa ragazza