Sindaca e co.: linguaggio specchio della società
Dopo l’elezione di Chiara Appendino e Virginia Raggi a prime cittadine di Torino e Roma, sulle testate locali e nazionali si è dovuto assistere a una ingloriosa sagra di stereotipi sessisti: da Il Tempo, che ha titolato «Roma in bambola», con una Raggi-Barbie vestita di rosa, a Repubblica.it, che ha ritenuto doveroso puntualizzare il fatto che Chiara Appendino sia da poco diventata madre: certo, i meriti politici e personali di una donna si giudicano ancora dalla sua volontà di procreare o meno, come se la sua immagine di madre la rendesse più buona, protettiva, rassicurante a mo’ di chioccia nei confronti dei cittadini.
D’altronde nello stesso articolo si legge: «Una delle armi è la sua aria pulita: grandi sorrisi, energia e grande pazienza». Dai, mettiamoci anche la capacità di lavare-stirare-cucinare e pure l’incapacità di cavarsela da sole. Negli stessi giorni ha fatto scalpore la lettera scritta dal marito di Virginia Raggi, Andrea Severini, sul suo blog: politicamente schierata, visto che anche lui fa parte dei Cinque Stelle, entusiasta nei toni, probabilmente sincera, con un’unica, piccola, stonatura, quel «Cercherò di proteggerti il più possibile anche da lontano». Come glielo spieghiamo che il maschio alfa protettore è una figura destinata a scomparire? Gli perdoniamo l’euforia del momento e il fatto di non appartenere alla sopracitata schiera di professionisti dell’informazione, che comunque non hanno esitato a riprendere entusiasticamente il suo pensiero.
Sia ben chiaro, non si tratta certo di nuove tendenze: non dimentichiamo «il fotomontaggio che fa impazzire l’Europa», come definito da Il Giornale, ovvero quella foto manipolata di Maria Elena Boschi che la ritrarrebbe china a firmare i documenti di fronte a Napolitano con mezzo sedere di fuori. È una bufala, ovviamente, anche se tre anni fa in molti la condivisero credendola vera. Ma come rincara la dose il pezzo di Sergio Rame! «A far strabuzzare gli occhi è uno scatto piccante del ministro alle riforme Maria Elena Boschi che, chinata per firmare il giuramento, scopre un finissimo perizoma che esce, furbetto, dal tailleur blu elettrico». Il perizoma finissimo e furbetto! Viva la mercificazione e il gossip da quattro soldi.
Quelli esposti fin qui sono esempi lampanti, ma la discriminazione può anche manifestarsi in forme in apparenza più subdole, come nel semplice utilizzo di sostantivi. Su queste pagine si può leggere un intervento di Tito Borsa in risposta alla scrittrice Michela Murgia che, su La Repubblica del 21 giugno, ha sottolineato non solo l’esigenza di lasciare da parte ogni riferimento alla vita privata delle neoelette (pensiero condiviso sia dalla sottoscritta, come si è potuto leggere, sia da Borsa), ma anche la necessità di chiamarle per ciò che sono: sindache e non sindaci.
A tale affermazione, il direttore della Voce risponde: «Stupisce che una persona giustamente stimata come Michela Murgia perda il proprio tempo correndo dietro a questioni indubbiamente marginali come questa: sono sempre stato convinto che prima della forma ci sia sempre la sostanza, e che anche se in alcuni casi è presente una matrice maschilista, non sia imponendo un lessico che si cambiano le cose. D’altra parte un compromesso c’è, per quanto non linguisticamente ineccepibile: la presidente della Camera Laura Boldrini, per fare un esempio».
Il fatto è che non si tratta di questioni marginali. Certo, non stiamo discutendo sui massimi sistemi dell’universo, ma vorrei ricordare come ogni discorso abbia per presupposto un pensiero. Non è imponendo un lessico che si cambiano le cose, ma è spiegando dalla base i motivi per cui una parola sia preferibile ad un’altra che si apre un dibattito e si prova così a superare preconcetti e pregiudizi.
Ogni volta in cui si legge, sui media, di «un trans picchiato», non solo si rischia di fare confusione tra generi, ma si è di fronte ad un atto discriminatorio: è una persona ftm («female to male», ovvero sta compiendo la transizione da donna a uomo) o mtf (sta compiendo il percorso inverso)? Parlare in modo corretto di tale persona è una forma di rispetto.
Ovviamente, se sui medesimi giornali si legge «Chiara Appendino sindaco di Torino», non si ha confusione tra generi, poiché è chiaro che si stia parlando di una donna, ma anche in questo caso si ha una discriminazione.
Come ricordato da Cecilia Robustelli in un articolo per il sito dell’Accademia della Crusca, nel nostro Paese sono stati numerosi gli studi scientifici che hanno evidenziato come la figura femminile sia «svilita dall’uso di un linguaggio stereotipato che ne dà un’immagine negativa, o quanto meno subalterna rispetto all’uomo. Inoltre, in italiano e in tutte le lingue che distinguono morfologicamente il genere grammaticale maschile e quello femminile, la donna risulta spesso nascosta “dentro” il genere grammaticale maschile, che viene usato in riferimento a donne e uomini (gli spettatori, i cittadini, ecc)».
In francese, però, come ricordato da Sergio Lepri sul suo sito personale, si dice «la ministre», così come «la secrétaire générale», «la présidente», l’«envoyée extraordinaire», «la directrice»; il tedesco usa «Ministerin», cioè «ministra», così come Angela Merkel è «Kanzlerin», cioè «cancelliera».
In Italia le donne per poter entrare in polizia, per esempio, hanno dovuto aspettare gli anni Cinquanta; prima di allora il termine «poliziotta» non esisteva. Allo stesso modo, con tempi diversi a seconda del caso, ci sono state le prime donne «professoresse», «filosofe», «cardiologhe», ecc. Usiamo questi termini ogni giorno e ce ne siamo abituati; ma in certi ambiti, come quello giuridico, burocratico e istituzionale, i tradizionali «ministro», «avvocato», «sindaco» di rado vengono usati al femminile. E coloro che li ritengono cacofonici o poco italiani, allora, non dovrebbero parlare nemmeno di «computer», ma di «calcolatore», tanto per fare un esempio. O farsi un ripassino di lingua italiana: «ministra» è parola usata già da Tasso e Carducci, seppur con diverso significato. Esiste dunque: usiamola. Non esiste? Creiamo un neologismo e usiamolo.
Il linguaggio umano infatti muta e si rinnova in continuazione, riflettendo le tendenze, gli scambi tra culture, i processi economici e sociali; è lo specchio dei tempi e lo specchio di un Paese. Un linguaggio non discriminatorio è riflesso di una mentalità ugualmente anti-discriminatoria; cominciamo ad usarlo, stimoliamo il dibattito facendolo uscire dalle Accademie, è pur sempre un primo passo per un mondo un po’ meno androcentrico.
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