Lamyne M.: vestiti giganti per la libertà
Lamyne M., nome d’arte di Mohamed Lamyne, è un artista e stilista trentottenne originario del Camerun. Oggi vive nel quartiere di Saint Denis, nel cuore della periferia parigina, e ha creato un proprio marchio di moda: Wonu An, che significa, in Peul, «Sii te stesso» e, in ideogrammi cinesi, «Sforzo e pace». Le sue creazioni sono frutto di scelte ecologiche e dell’utilizzo di nuovi materiali, senza però rinunciare alla qualità dei tessuti.
L’ultimo suo grande progetto è un’esposizione all’interno della Basilica di Saint Denis, nell’omonimo quartiere parigino, che s’intitola «Les grandes robes royales» (I grandi vestiti reali), inaugurata il 3 ottobre 2015 e visitabile fino al 30 aprile prossimo. Si tratta di 16 vestiti giganti (3 metri di altezza), realizzati in collaborazione con gli studenti della scuola di artigianato tessile «La Source» di Nogent, ispirati ai costumi delle nobildonne medievali.
Tessuti, colori, disegni, texture e usanze dalle più diverse origini coesistono in un mix sorprendente, che avvicina in particolar modo la cultura africana a quella cinese. Lo scopo è rappresentare il tessuto «culturale» di ciascun paese e far convivere il mondo intero in un unico progetto.
L’artista, che in questo momento si trova in Austria per svolgere delle performance di abbigliamento di vacche, ha gentilmente risposto alle mie domande via Skype, affermando di essere onorato dell’interesse che nutro nei suoi confronti e di dovermi, perciò, dedicare parte del suo tempo.
Da dove è nata l’idea per questo suo progetto?
Dall’attuale situazione geopolitica che caratterizza la banlieu parigina. Il dipartimento di Saint Denis è un luogo dove s’incontrano «tutti i problemi del mondo», oltre ad essere il detentore, a livello europeo, di due record negativi: il maggior numero di giovani senza lavoro e il più elevato tasso d’immigrazione, con conseguenti e gravi problemi d’integrazione.
A cosa è legata la scelta della basilica di Saint Denis? All’importanza del complesso architettonico o ai problemi del quartiere?
A entrambe le cose. La basilica di Saint Denis è la più grande «necropoli» d’Europa: a partire dal X secolo ha costituito il luogo di sepoltura dei sovrani di Francia (43) e delle loro consorti (32), il che le conferisce un’incommensurabile importanza storica. L’esposizione è ospitata all’interno della cripta, ossia nel cuore vero e proprio dell’edificio, a cui è di norma proibito accedere. Qualche tempo fa, Jean Paul Gaultier in persona aveva richiesto il consenso per poter utilizzare questi spazi ma gli era stato negato dal precedente abate.
Nel quartiere di Saint Denis convivono uomini di qualsiasi credo, è una culla che riunisce le religioni più diverse. La mia scelta è ricaduta sulla basilica non tanto per il culto che ospita, quanto per la sua «apertura»: è un luogo che permette la riunione di tutte le culture del mondo e pone le basi per un necessario dibattito politico, economico e sociale. Il mio intento è quello di dimostrare che anche chi vive in periferia può realizzarsi e avere la sua occasione di riscatto. Io qui sono considerato come un portavoce: grazie alle mie opere, gli abitanti della banlieu possono uscire allo scoperto e farsi ascoltare.
Lei è di fede islamica? Come ha vissuto l’attentato terroristico del 13 novembre? Quale effetto hanno avuto questi fatti sull’esposizione?
Sì, sono musulmano. La comunità islamica parigina si è espressa con parole di forte condanna alle quali io mi associo. Chi predica la Jihad non ha capito niente dell’Islam. Sono persone vuote, che vivono nell’oscurantismo: il fatto stesso che abbiano preso di mira le opere d’arte ne è la prova.
Gli eventi del 13 novembre hanno avuto un effetto positivo sull’esposizione, ho notato un grande riscontro, una gran voglia di ripartire. È stata, e continua ad essere, un’occasione per dire agli integralisti che ognuno di noi ha diritto alla libertà.
L’arte può veramente costituire un mezzo di comunicazione tra diverse culture e religioni? Come possiamo sfruttare questo suo potere?
L’arte è un ponte tra differenti culture, una terapia che può aiutare ad accettarci gli uni gli altri ed educarci al vivere insieme. Per voi occidentali è spesso molto difficile comprendere i problemi di chi ha una cultura diversa dalla vostra: non conoscete l’analfabetismo, la guerra, la povertà, la fame. Questa «ignoranza» genera tanta incomprensione: l’arte potrebbe essere un efficace strumento di conoscenza reciproca e di conseguente accettazione. Essa costituisce un mezzo di comunicazione a tutti gli effetti completo: permette la condivisione e lo sviluppo dei suoi contenuti tramite il coinvolgimento di qualsiasi tipo di pubblico. È un linguaggio universale.
Il primo passo per sfruttare questo suo potere è fornire a noi artisti i mezzi adatti per poterci esprimere al meglio ed ottenere così dei risultati concreti. La visibilità di un artista contemporaneo è ancora troppo legata al contesto locale e politico. Io stesso sono stato oggetto di contesa tra fazioni politiche all’interno del dipartimento di Saint Denis, ma non ho mai voluto schierarmi.
Io sono un artista per la società, mi piace lavorare per la gente che mi somiglia, che ha un trascorso simile al mio. Per questo motivo il pubblico a cui mi rivolgo è principalmente quello che nulla conosce dell’Arte: essa non dev’essere qualcosa di esclusivo, destinato ad una cerchia ristretta di intellettuali, ma è un diritto fondamentale che spetta ad ogni uomo, indipendentemente dalla religione o dalla condizione economica.
Laureata in Economia dei Beni Culturali all’Università Ca’ Foscari di Venezia, frequento la magistrale in Marketing e Mercati Globali all’Università di Milano-Bicocca. Innamorata della cultura, nel mio piccolo cerco di diffonderla il più possibile.