Un mondo di poveri? Le lacune del rapporto Oxfam
Secondo il nuovo rapporto di Oxfam riguardante le diseguaglianze nel mondo, le 8 persone più benestanti del pianeta posseggono una ricchezza netta di 426 miliardi di dollari, pari a quella posseduta dal 50% più povero della popolazione. Secondo lo stesso studio, ciò è dovuto al fatto che l’attuale sistema capitalistico, basato sulla massimizzazione dei profitti e su un liberismo da molti considerato eccessivo, favorisca l’accumulo di capitali nelle mani di pochi potenti, che poi, proprio in virtù di ciò, sfruttano la loro posizione per influenzare i governi verso politiche a loro favorevoli, in un circolo vizioso che non può che portare alle conseguenze osservate. La società risultante da questo processo è quindi dipinta come profondamente sbilanciata, dove sono continui i tagli ai servizi essenziali, come sanità e istruzione, ma viene spesso chiuso un occhio davanti ai comportamenti spesso illeciti di multinazionali e istituzioni finanziare, spesso declinati in elusione ed evasione fiscale.
Secondo Oxfam, sono almeno cinque le mosse che possono portare a un miglioramento della situazione: un sistema di tassazione più progressivo, con aumenti per le fasce più ricche della popolazione e l’eliminazione dei paradisi fiscali; manovre incentrate sulla ridistribuzione della ricchezza; servizi pubblici gratuiti e universali; attenzione ai temi ambientali e alla limitatezza delle risorse nel mondo; cambiamento radicale negli obiettivi politici perseguiti, anche con l’introduzione di nuovi indicatori non più basati solo sull’aspetto economico, ma che tengano conto anche di fattori come il benessere del cittadino.
L’analisi, sicuramente scioccante e di impatto, mostra però alcune lacune metodologiche. La più importante delle quali è sicuramente il fatto che, nel voler affrontare il tema della diseguaglianza, usare la ricchezza netta, ovvero attivi meno debiti, potrebbe essere fuorviante. Con questa impostazione, infatti, chi vive in estrema povertà e, anche se non soprattutto per questo, è escluso da rapporti di ogni sorta col mondo bancario, risulta più ricco, per esempio, di uno studente americano medio che ha appena aperto un mutuo per intraprendere gli studi universitari. Inoltre, con tale sistema, gli abitanti di intere nazioni, come la Cina, dove, per motivi essenzialmente politici, il rapporto con la finanza è di diverso tipo, sono esclusi sistematicamente dalle fasce meno abbienti. Nel 2016, calcolando il tutto in questo modo, bastava un patrimonio di 10mila dollari per essere nel 20% dei più ricchi. Secondariamente, il solo aspetto economico, in fatto di disuguaglianza è molto limitante. Sarebbe essenziale analizzare tutto un insieme di risorse che incidono in modo ancor più determinante sul benessere e legate più strettamente ai bisogni primari dell’uomo: per esempio, sottolineare il fatto che un cittadino europeo medio consumi, quasi indipendentemente dal reddito percepito, 625 metri cubi di acqua all’anno, un americano 1798, contro i soli 200 metri cubi di un africano.
Alla luce di tutto ciò, indignarsi per rapporti come questo potrebbe essere in realtà un atteggiamento più perbenista che altro. Non ha senso scioccarsi per i risultati logici di un’organizzazione socio-economica che si è imposta dalla seconda guerra mondiale in poi, osannata e fortemente voluta in modo compatto dalla quasi totalità della popolazione, fino a che essa ha garantito crescita e benessere, almeno in un’ottica consumistica del di più. Se le conseguenze vanno prese come un dato di fatto, l’unica cosa che si potrebbe fare è ripensare totalmente l’intero sistema, in un modo però che non si può ridurre a qualche velleità ridistributiva che finirebbe con l’essere solo sintomatica e con la consapevolezza che ciò significherebbe probabilmente, almeno per l’uomo medio occidentale e non solo per una manciata di paperoni, una contrazione della propria ricchezza, solitamente nemmeno presa in considerazione.