La musica del lago mi spiega perché scrivo
Nella foto qui sopra: «Emerald Sea» di Albert Bierstadt
L’altra sera mi trovavo a camminare all’una di notte passata lungo il piccolo molo sul lago, nel paese accanto al mio. Faceva molto freddo, il vento galoppava, ma non ti investiva con violenza.
Erano come carezze di mani grandi e ruvide, fredde, ma amiche.
Ricordo che pensai «Di questo dovrò scrivere», perché non volevo dimenticarlo, perché volevo tradurlo in poesia, perché poesia era quello spettacolo per me. Solo che avevo paura, come sempre mi accade, che nessuno, senza la mia traduzione, avrebbe mai potuto vederlo con gli stessi occhi con cui lo sentivo io.
Scendendo dalla stradina ripida, nascondevo il più possibile il viso nella giacca. Mi ero dimenticata la sciarpa. Ma qualcosa mi ha distratto ancor più del freddo.
Musica.
Musica. Pura.
Non era quella che però si sente in radio, non c’erano voci o strumenti. Almeno, non i soliti.
Quella notte, da sola, assistetti a uno dei più bei spettacoli mai visti.
In primo piano, le onde cantavano vivaci nell’infrangersi contro la terra ferma. A seguire, il dondolare delle barche addolciva il tutto con quei profondi schiocchi di legno. Ne sentivo quasi il profumo.
E come se non bastasse, cascate scintillanti di tintinnii, ognuno diverso, a seconda di quali campanelli o oggetti di metallo fossero collocati sulle barche. E possente, di sottofondo, il seducente frusciare delle foglie secche sugli alberi che tra pochi giorni non sarebbero diventati che nudi tronchi pronti a resistere.
Una bellezza straordinaria. Che non ho potuto condividere con nessuno. Rimasi così incantata che mi fermai. Impietrita. Ad ascoltare. Nonostante il freddo, nonostante il vento e la stanchezza. I capelli scompigliati e il nasino umido.
Non potevo andare via. La natura mi stava facendo un regalo, così, senza chiedermi nulla in cambio.
Mi chiamava.
«Vieni, tu fai parte di tutto questo».
Se avessi potuto, mi sarei gettata in acqua. Ma il coraggio non sostiene fino a tal punto.
Impietrita. Ad ascoltare. Che ascoltare non era.
Io stavo vivendo il momento e ogni mio poro assorbiva ciò che mi stava accadendo intorno.
Tornai a casa.
Nutrita nell’essere.
Un essere senza contorni, ma così pieno di sfumature da spaziare oltre le sole tre dimensioni.
Milioni di universi.
Chissà chi sarei adesso, se non avessi vissuto quello spettacolo. A volte, piccoli avvenimenti o dettagli, ci portano su una strada ben precisa, che può sembrare casuale. Ma basta un niente di diverso, e il futuro potrebbe cambiare completamente.
Se non avessi incontrato il mio primo amore. Chissà, chissà cosa ne sarebbe di me ora.
Starei scrivendo ancora aneddoti senza scopo. Perché scrivere è l’unico modo che ho di stare al mondo? Di prendermi un posto sul palco della vita e recitare la parte della donna che lotta contro un nemico immaginario mentre si guarda allo specchio e si urla addosso «Sei bellissima»?
Con rabbia. Senza rancore.
Rifarei tutto da capo.
Ma sbaglierei ugualmente.
Perché se ho sbagliato, è stato lo sbaglio più bello che avessi mai fatto.
E da quel dolore ho trovato la mia vocazione, scrivo. E lo scriverò. Finché ci sarà carta e inchiostro, se no lo scriverò sui muri con le lacrime:
Tutto questo è uno spettacolo.
E io ne faccio parte…
Impietrita. Ad ascoltare. Nonostante il freddo, nonostante il vento e la stanchezza.