Non solo gli imprenditori senza scrupoli, anche i clienti sono responsabili
Esattamente come in una partita a carte, nei diversi mercati e settori economici ognuno segue una propria strategia, si assume i suoi rischi e se fortunato vince. Nel mondo del fast fashion marchi come Zara o H&M hanno scelto la medesima strategia di gioco: offrire alla clientela una gamma di capi d’abbigliamento dal prezzo contenuto e ispirata ai trend proposti dalle case di alta moda nelle loro collezioni. Da un punto di vista teorico fila tutto liscio, sul piano pratico tuttavia non tardano a venire a galla i problemi e le contraddizioni intrinseche a questo sistema.
A seguito del crollo nell’aprile 2013 del Rana Plaza, uno dei più importanti centri di produzione dell’industria fast fashion in Bangladesh, il mondo della moda è entrato nel mirino dell’opinione pubblica scatenando un dibattito etico incentrato sull’insostenibilità di un sistema produttivo considerato anacronistico e incapace di tutelare i suoi dipendenti e l’ambiente. A far discutere sono innanzitutto le evidenti contraddizioni: l’industria continua ad essere valutata per miliardi di dollari all’anno, costituendo di fatto un’eccezione per la realtà di molte aziende che dal 2008 devono fare i conti con gli effetti della crisi, contemporaneamente numerosi sono i marchi al centro di continui scandali per le disumane condizioni di lavoro a cui costringono i loro dipendenti nei cosiddetti paesi del Terzo Mondo.
La questione è evidentemente più complessa di quanto si possa pensare e svariate sono le percezioni e le interpretazioni sorte in risposta agli scandali del fast fashion. Se da un lato appare chiaro a tutti come la mancanza di un’adeguata normativa in materia di contratti di lavoro e il basso costo della manodopera rappresentino le principali problematiche e cause delle precarie condizioni lavorative dei dipendenti, d’altro canto non mancano le voci, come quella del direttore del Free Market Institute della Texas Tech University, Benjamin Powell, che sostengono come simili situazioni di disagio contribuiscano in realtà allo sviluppo e alla crescita in termini di ricchezza economica per i paesi in via di sviluppo.
Dichiarazioni come quelle di Powell nascondono al proprio interno un insidioso rischio. È evidente che se accettiamo il paradosso per cui edifici pericolanti e stipendi irrisori rappresentino la realtà lavorativa di una parte dei cittadini del mondo ma non dell’altra, stiamo legittimando di fatto il pensiero che esista una distinzione, se non addirittura una gerarchia, tra le due parti. In un contesto storico quale è quello della globalizzazione, dove barriere di ogni genere sembrano annullarsi quotidianamente, il fast fashion sembra procedere contro corrente contribuendo irrimediabilmente al persistere delle disuguaglianze e alla loro alimentazione attraverso strategie di mercato non prive di difetti.
Affrontare ad oggi un discorso sull’industria della moda limitandosi a termini come «eleganza» e «ricchezza» non è più possibile. Stragi come quella del Rana Plaza hanno permesso di fare luce sul lato oscuro dell’industria della moda, ponendoci di fronte alla necessità di rivalutare il nostro ruolo in quanto clienti. Essere consumatori non è più una scusa, in quanto tali, al pari dei grandi nomi dell’industria, siamo responsabili per i disastri umanitari e i danni ambientali che si celano dietro l’irrisorio costo di buona parte del nostro guardaroba. Se la moda deve essere espressione di sé e sfoggio della propria unicità, che lo sia ma non a costo della vita e del benessere di altri.
Studentessa universitaria di Sociologia e aspirante giornalista.
Mi cimento in articoli di attualità e cultura con un occhio di riguardo per le questioni sociali.