Nonostante tutto, mollare la Turchia non ci conviene
Il referendum che si è tenuto domenica scorsa in Turchia ha messo in dubbio il futuro della democrazia e dei rapporti del paese con l’Unione Europea, ma anche di una porzione del nostro Pil. La Turchia è il primo mercato di destinazione dell’export italiano in Medio Oriente ed è il decimo mercato in assoluto per il totale delle esportazioni italiane, insomma è un partner strategico per l’Italia. Fortunatamente, per ora, i rapporti commerciali non sono stati scalfiti dal terremoto politico e sociale dell’ultimo anno e mezzo e le aziende italiane che già si trovano in Turchia o che hanno rapporti commerciali con il paese continuano a operare.
Le aziende che però non sono ancora presenti in Turchia e vorrebbero entrare, potrebbero trovare alcuni ostacoli. Nel triennio 2013-2015 si facevano in media una decina di fiere all’anno in Turchia, con una partecipazione media di 20 aziende, ma nell’ultimo anno l’organizzazione di fiere è calata drasticamente. Il rischio è che con Erdogan ormai dittatore si vada verso una chiusura proibizionistica oppure dovuta a sanzioni europee sulla falsa riga di quelle adottate contro la Russia di Putin a seguito dell’annessione della Crimea.
L’Italia si posiziona dopo la Germania e prima della Francia nelle esportazioni verso la Turchia ed è il quinto importatore di prodotti locali, dopo Germania, Iraq, Regno Unito e Russia. Nel 2016 i ricavi nostrani verso quello che una volta era l’Impero Ottomano sono scesi a 9,6 miliardi di euro rispetto ai circa 10 del 2015 (-3,8%). Il trend per le importazioni dalla Turchia, a quota 7,47 miliardi, è aumentato del +12,4% consentendo di arrivare a un saldo della bilancia commerciale positivo per 2,13 miliardi di euro.
Antonio Musella, direttore dell’Ita (Italian Trade Agency) di Istanbul, è stato chiaro: «Quello che le aziende italiane hanno lamentato un po’ a partire da luglio è stato il cambiamento di interlocutori nel pubblico che può aver disorientato, dopo il golpe estivo. Ma credo che i benefici dello stare in questo mercato si dimostrino ancora superiori». Secondo i dati di Ita circa 560 aziende italiane sono stabilmente attive in Turchia, per oltre un terzo impegnate nei settori della meccanica e dell’impiantistica e per l’11% circa nell’edilizia-arredamento. In Turchia hanno organizzazione stabile e filiali operative gruppi di grande spessore tra cui Pirelli, Barilla, Ferrero, Astaldi, Menarini, Technogym, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il primo comparto italiano in Turchia per importanza è sicuramente quello relativo a infrastrutture-costruzioni-logistica, seguito dall’elettromedicale, dalle energie rinnovabili, dalla meccanica strumentale e dal packaging, che nel paese di Erdogan cresce del 15% annuo, senza dimenticare l’agroalimentare. Per prepararsi al meglio al centenario della repubblica previsto per il 2023, il governo turco sta pompando gli investimenti in infrastrutture e nel settore ospedaliero; i macchinari, difatti, sono di gran lunga la fetta principale dell’export, seguiti dall’industria estrattiva, dai mezzi di trasporto, dai metalli, dalla chimica e dalla gomma plastica, ma anche il settore dei beni di consumo inizia a dare segnali positivi.