Non volevo vivere in un paese in sedia a rotelle, così mi gettai nella campagna per il Sì
Quattro dicembre 2016. A distanza di più di un anno non ricordo più quali fossero le parole esatte del quesito referendario, ma già all’epoca, quando entrai nella cabina elettorale -o meglio, quando la vecchia me (che sarebbe morta di lì a un mese) entrò nella cabina elettorale- quelle parole avevano perso nella mia testa il loro significato originale,ed erano diventate qualcosa di più importante, quasi un dilemma esistenziale, riguardante il fine ultimo della mia esistenza sulla terra. Capite ora che razza di peso avesse assunto la matita nella mia mano.
Lui (Matteo Renzi, al palazzo Bo) si mise a salutare giovani imprenditori, rientrati dall’estero. Continuavo a pensare a mio fratello, in California. Volevo urlare a Renzi: «Riportami mio fratello, stronzo incapace». Alla fine dell’incontro non amavo Renzi, né lo detestavo, provavo una fredda indifferenza. Stetti mezz’ora ad aspettarlo fuori dal portone, prima di scoprire che era uscito dall’altra apertura.
Non riuscivo a togliermi di dosso la sensazione di averlo già conosciuto, magari in qualche vita precedente. Lo rividi una settimana dopo, alla Casa del Sì, nel Palazzetto Geox. C’ero io con gli altri due consiglieri del Partito, lui parlava e io scuotevo la testa, indecisa sul da farsi.
Volevamo uscire alla chetichella, senza farci notare, invece urtammo lo staff di Matteo Renzi. Io lo guardai, senza dire nulla e senza sorridere, senza l’adorazione cui lui è abituato, senza neanche il disprezzo cui è ugualmente abituato. Lo guardavo con compatimento, con una compassione profonda. Si accorse dei miei occhi, di quant’erano azzurri e si inginocchiò davanti a me, mi toccò le ginocchia, mi prese le mani nelle sue. Intanto lo staff premeva per portarlo via da me. «Matteo…» pensai, come se ne fossi rapita.
Quando mi domandò come stessi sembrava gli importasse davvero della risposta. Lo staff riuscì, infine, a portarlo via da me, dopo che io lo informai che facevo il consigliere comunale.
Quella sera feci un incubo. Non ero ancora nata, stavo parcheggiata nell’edificio dei bambini non nati. All’esterno non so come apparisse, l’interno era tutto (anche il soffitto) ricoperto di mattonelle grige bordate di bianco. Vedevo gli altri che provavano a camminare, cadevano continuamente, si rompevano il naso, piangevano.
«No, noi non ci proviamo neanche a camminare» disse la mia parte destra, con la voce di Silvio Berlusconi. Anzi, giurerei che ci fosse proprio il vero Berlusconi nel sogno. «Dobbiamo tentare, per andare avanti, sarà un grosso investimento per il futuro» gli rispose la parte Matteo Renzi. Ma io non potevo accettare. Camminare significa perdere l’equilibrio continuamente, affidare in certi momenti tutto il peso del corpo alla destra o alla sinistra per permettere all’altra parte di andare avanti. Strano, misterioso, inconcepibile.
«Eri simpatico, Silvio» disse la parte Renzi «ma da quando quel virus è penetrato dalla placenta non sei più lo stesso».
«Non cammineremo, Matteo».
«Proviamo!»
«Matteo, NO!!!» la voce di Silvio si mescolò alla mia. E venni al mondo.
Vorrei scrivere la solita frase fatta del tipo: mi svegliai con la fronte madida di sudore. Ma in realtà non so quando mi svegliai di preciso. E come se da allora non mi fossi mai svegliata. So solo che non volevo vivere in un paese in sedia a rotelle, dunque mi gettai anima e corpo nella campagna per il Si.
La mia amica Fede dice che la storia è semplice: ho una cotta per l’ex premier.
Impegnata tra libri e scacchi, in movimento tra Padova e Torino, sempre con una forte dose di sarcasmo.