Pannella, mi hai insegnato il valore dei diritti
Sì, lo ammetto, le mie sono lacrime di coccodrillo. Ho il rimpianto di non aver approfondito di più la figura di Marco Pannella mentre era ancora in vita; ho anche il rimpianto di non aver mai provato a scambiarci due chiacchiere (che, vista la sua parlantina, sarebbero poi state due ore); gli spunti di conversazione non sarebbero di certo mancati.
Il 20 maggio scorso Antonio Padellaro, sul Fatto Quotidiano, raccontava: «Solo quelli della mia generazione possono ricordare il profumo di libertà che respirammo in quegli anni. Fu come se improvvisamente qualcuno avesse squarciato il sipario di quell’Italia bigotta e ipocrita, dove di “certe cose” si poteva parlare solo sottovoce, dove gli uomini vivevano ancora piacevolmente immersi nella cultura dei casini, e dove le donne che pretendevano di lasciare dei mariti insulsi e maneschi, erano giudicate semplicemente delle puttane. Ci voleva un grande coraggio per mettersi contro quella cultura dominante e maleodorante. Bisognava metterci la faccia, farsi chiamare frocio e drogato, sfidare le censure, imbavagliarsi davanti alle telecamere, essere considerati dei pagliacci, farsi scomunicare dai cardinaloni, e stare lì e non mollare e insistere, insistere, insistere».
Potrei quindi usare la classica scusa del «non ero ancora nata e non ho assaporato in prima persona l’atmosfera di quel tempo», ma sarò onesta: la verità è che io, come molti altri figli degli anni Novanta, portata a credere di avere il mondo in mano grazie ad internet, tendo a dare per scontate alcune conquiste negli ambiti più disparati, dalla tecnologia alla vita civile. Che sia un monito per tutti noi: c’è chi ha combattuto per anni per garantire a noi tutti dei diritti basilari, e oggi è doveroso rendergli un piccolo omaggio (che si può anche leggere come un malcelato tentativo di pararmi il derrière).
Non c’è stato infatti solo il femminismo di piazza, de «l’utero è mio e me lo gestisco io»; in quel calderone di proteste che furono gli anni Sessanta; la battaglia per il riconoscimento di diritti fondamentali è stata condotta anche tra le file di quei liberali che nel 1955 fondarono il Partito Radicale e che si distinsero subito per una serie di battaglie contro il clericalismo e il provincialismo all’italiana. Tra questi c’erano, oltre a Pannella, anche Ernesto Rossi, Leo Valiani, Mario Pannunzio ed Eugenio Scalfari. Nel ’58 si alleano con i repubblicani e riescono ad ottenere così sei seggi in Parlamento.
Dal 1965 comincia la battaglia per il divorzio: non solo appoggiando la proposta di legge del socialista Fortuna, ma anche creando la Lid (Lega italiana per il divorzio), con cui si sperava di ottenere l’appoggio dei comunisti; fu in questa occasione che Pannella attuò il primo dei tanti scioperi della fame. Le proteste-spettacolo sono state sempre la sua arma, insieme all’avversione per ogni forma di violenza. La legge viene approvata cinque anni più tardi, nel ’70, ma non andava proprio giù alle forze cattoliche, Democrazia Cristiana in primis. Ecco che nel 1974 si votò al referendum per l’abrogazione della legge: grazie anche all’azione dei radicali, vinse massicciamente il «No».
Ma negli anni Sessanta Pannella si batté anche contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia (finendo in carcere a Sofia) e per il diritto alla sessualità libera, in una società in cui il sesso era ancora un tabù. Il partito dapprima promosse un dibattito su «Sessuofobia e clericalismo», poi si dedicò alla contestazione in alcuni convegni clericali, promosse battaglie a braccetto con le femministe, si alleò con il Fuori! (Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano) per contrastare pregiudizi e discriminazioni nei confronti degli omosessuali.
Ciò contro cui ha sempre combattuto è la mancata affermazione della piena laicità dello Stato: lui non ce l’aveva con i preti (tanto da scrivere una lettera di complimenti sinceri a papa Francesco), ce l’aveva con il controllo esercitato dalla Chiesa sulla società: ecco le battaglie per rendere l’aborto legale (la legge entrerà in vigore nel ’78), contro la fame nel mondo, per la depenalizzazione dell’uso delle droghe, per una legalizzazione dell’eutanasia, per la procreazione assistita, contro le condizioni delle carceri italiane.
Non solo aborto e divorzio, dunque: nell’intervista del 18 gennaio scorso al Fatto Quotidiano, l’ultima a firma di Emiliano Liuzzi, prematuramente scomparso pochi mesi dopo, Pannella difendeva il suo metodo d’azione: «Serve un altro sciopero? Forse ne serviranno altri cento. Oggi sono qui per una delle battaglie inascoltate, quella della ragionevole durata dei processi. Che devono essere celebrati a ritmi che riguardano la vita e non la morte». L’obiettivo è far sì che i processi «non durino più anni, ma mesi. Io ho combattuto una vita per questo, continuo a trascorrere le festività comandate nelle carceri, tra i detenuti, anche quelli in attesa di giudizio».
Ecco l’ultima grande battaglia di Pannella: non lasciamola cadere nel vuoto. Provocatore fino alla fine, è sempre stato di almeno dieci anni avanti a tutti. Nel ’75, intervistato da Playboy Italia, nel pieno dello scontro tra l’ideologia comunista e quella democristiana, spiazzò tutti dicendo di non credere nelle ideologie. In fondo, destra o sinistra non avevano importanza, l’importante era giungere all’obiettivo, con qualsiasi mezzo (anche alleandosi con Berlusconi): rendere l’Italia un paese più libero, più moderno, meno bigotto, più civile.
Te lo prometto, Marco: questa volta non ti ignoreremo.
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