Per un 8 marzo antisessista, più che femminista
Anche su queste pagine, cosi come nel «mondo reale», sullo «Sciopero delle donne» dell’8 marzo scorso il dibattito è acceso. Chi vi scrive non si considera «femminista» nel senso più tradizionale e estremista del termine, ma preferisce piuttosto parlare di «antisessismo»: ritiene cioè necessario, in un paese civile, che donne e uomini, pur nel rispetto della loro effettiva diversità biologica, siano considerati allo stesso modo in tutti i livelli della vita sociale, giuridica, politica, economica, lavorativa, ecc.
Anzi, chi vi scrive solitamente non distingue tra «donne e uomini» bensì preferisce parlare di «persone» includendo ogni essere umano a prescindere dal suo sesso biologico e dalla sua identità di genere (e anche a prescindere dal suo orientamento sessuale, ma questo è un altro discorso); ecco dunque che chi scrive è alquanto perplessa a proposito di questo «sciopero femminista», non nella sua totalità, chiaramente, ma in certi suoi aspetti, come avevo già accennato nel precedente articolo su questo tema. Eppure ho partecipato alla manifestazione di Padova dell’8 marzo scorso, promossa sempre dal collettivo «Non una di meno», con l’intento di informarmi, di capire le ragioni di chi vi ha aderito con convinzione, ragioni urlate dal megafono a ogni tappa del percorso realizzato dal corteo, che è partito alle 10 e ha attraversato tutto il centro storico della città veneta per circa due ore e mezza.
Gli «slogan» utilizzati ricalcavano perlopiù quegli «otto motivi» enunciati anche da Tito Borsa nel suo articolo, tra cui il «diritto al movimento», che suscita qualche perplessità, e il rifiuto dei linguaggi sessisti e misogini: da linguista, porto avanti per prima questa «battaglia», che però, a mio avviso, non deve essere confusa con un’imposizione «dall’alto»: l’unico modo per cambiare il linguaggio, processo lungo e complesso, è fare cultura. Tutto passa attraverso l’educazione, dal rifiuto degli stereotipi relativi al genere fino alla tappa più importante, il rifiuto della violenza.
Ecco perché lo sciopero della scorsa settimana è sì, un segnale forte, ma in fondo non basta: deve essere solo la tappa di un percorso più articolato che coinvolga tutti i settori della società e che parta dalla scuola; mondo nel quale, per inciso, c’è ancora la credenza secondo cui i «gender studies» possano traviare i bambini.
Com’era prevedibile, c’erano donne di ogni età e religione, molte con i figli a seguito, alcune anziane, c’erano insegnanti, operaie, tante studentesse, anche adolescenti. C’era una rappresentanza del Centro Donna Padova Auser (per il quale stiamo promuovendo una campagna di raccolta fondi). C’erano bandiere sindacali, certo, ma c’erano anche bandiere arcobaleno, simbolo delle persone Lgbtqi+. Ma, soprattutto, c’erano anche molti uomini, più o meno giovani, che hanno sfilato contro la violenza: è un messaggio forte, positivo, segno che quando si parla di maschilismo, stereotipi di genere, violenza contro le donne non si tratta più solo di «discorsi da donne».
Il primo passo per portare un cambiamento è l’inclusione di tutti i soggetti «a rischio» violenza: e lo siamo tutti, indistintamente. Anche le persone che non obbediscono allo stereotipo dell’eteronormatività (donne o uomini che siano). Il femminismo più radicale accetti questo, e punti all’educazione e al «fare cultura», più che alle azioni simboliche: è innegabile che durante la manifestazione si respirasse un clima di rabbia (molte erano le lavoratrici precarie presenti) ma anche di inclusione e solidarietà; è altrettanto innegabile che uno sciopero dimostrativo, come questo, non sia riuscito a scuotere le coscienze come solo altri programmi ad ampio respiro sanno fare.
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