Piccoli analfabeti crescono: classi troppo numerose?
«Una massa eterogenea di analfabeti maleducati». Del primo Consiglio di Classe di quarta ginnasio ricordo solo la definizione che il professore di italiano diede di noi. Era quel periodo in cui il semplice saper leggere le scritte in greco sulle scatolette di tonno ti faceva sentire parte di un’élite, ma quell’uomo burbero e amante della letteratura ci spinse in fretta giù dal piedistallo.
Aveva ragione. E hanno ragione i 600 docenti universitari firmatari di una lettera che chiede al Governo di porre rimedio all’analfabetismo dilagante tra i giovani. Secondo loro, troppi ragazzi arrivano all’università senza conoscere l’italiano: lacune in ortografia, sintassi e lessico sono all’ordine del giorno anche nell’ambiente accademico, in cui si dovrebbe dare per scontata almeno una solida conoscenza della propria lingua. Di fronte all’imbarazzante appello, su social e giornali è partita la caccia alle streghe: è colpa della scuola? Degli alunni?
Le domande sull’efficacia dell’istruzione pubblica sono legittime. Non c’è componente della «generazione z» (cioè quella dei nati tra 1995 e 2010) che non abbia frequentato le scuole dell’obbligo, eppure molti giovanissimi faticano a scegliere tra «ha» e «a». Chi, come me, ha bazzicato il florido mondo delle ripetizioni, avrà sentito bambini borbottare imploranti: «Mi puoi rispiegare quando devo mettere la “i” al plurale di “-cia” e “-gia”, che non riesco a ricordarmelo?», e adolescenti chiedere: «Cosa vuol dire “vendemmia”?». Può essere che alcuni insegnanti siano incompetenti, ma il problema è trasversale, ed è ciò che viene chiesto loro di fare: trasmettere le stesse conoscenze a 30 persone diverse, in tempi relativamente brevi. Le classi sono troppo ampie ed eterogenee perché ogni ragazzo sia seguito a dovere, e l’esiguo numero di ore non lo permette. Il risultato è un abbassamento del livello scolastico, che porta a un’assunzione superficiale delle conoscenze.
Se anche le scuole attivassero corsi extracurriculari per consolidare le competenze degli alunni più fragili, probabilmente i genitori li boicotterebbero. La nuova moda tra i figlianti, infatti, è quella di insegnare ai propri pargoli che al dovere si adempie a piccole dosi, e soltanto se non contrasta con gli impegni piacevoli. Emblematico è il caso della lettera con cui un genitore informava compiaciuto la maestra del figlio di averlo sollevato dall’onere di svolgere i compiti, perché per crescere bisogna divertirsi.
Tra un’istruzione da quattro salti in padella e famiglie che se la prendono con chi dà voti bassi anziché domandarsi perché il figlio li riceva, i nuovi italiani crescono sempre più indifesi. Indifesi, perché conoscere la propria lingua e saperla utilizzare con padronanza significa poter comunicare chiaramente e chiaramente comprendere ciò che ci è comunicato, senza essere in balia del «latinorum» di qualcuno.
È evidente, però, che a un certo punto della vita bisogna prendere per le corna la capra che si è e rimediare alla propria ignoranza. Forse non hai riempito quaderni di dettati e analisi grammaticale da piccolo e non sei cresciuto in una famiglia di eruditi, ma le librerie sono aperte.
Dalla Bassa Bergamasca alla tentacolare Udine per studiare Mediazione Culturale. Mi guardo intorno e scrivo.