Un popolo agli ordini della democrazia
Siamo sempre stati dalla parte dei vinti, e mai dei vincitori: chi scrive ha votato per la prima volta nel 2013 e da allora non ha mai seguito l’esempio della maggioranza degli elettori. Ieri è accaduta la stessa cosa: ho fatto parte di quei 32 italiani su 100 che hanno partecipato al referendum e ho votato, come chi ci legge sa, «Sì». Il presidente della Puglia Michele Emiliano, in prima linea per la riuscita di questo referendum, ha definito comunque una vittoria il risultato raggiunto: «Il dato del voto è buonissimo, e il governo deve tenerne conto. Milioni di italiani vogliono la tutela dell’ambiente, pretendono trasparenza dei ministeri, e non vogliono sottostare alle lobby. Vanni ascoltati».
Ci è difficile essere d’accordo con Emiliano: il mancato raggiungimento del quorum (che non è stato neppure sfiorato) è indubbiamente una vittoria per il governo, per Matteo Renzi, per Giorgio Napolitano e per tutti coloro che hanno irriso sin dal principio coloro che intendevano esercitare il proprio diritto-dovere di voto. «Prima dicevano quorum. Poi il 40. Poi il 35. Adesso, per loro, l’importante è partecipare #ciaone», autore di questo tweet è il deputato Pd, nonché renzianissimo, Ernesto Carbone, ieri sera a urne ancora aperte. La svergognata messa alla gogna di cittadini colpevoli solamente di avere un’opinione opposta, e di consigli regionali che hanno esercitato un proprio diritto volendo un referendum, è il simbolo più eloquente della giornata di ieri. Se, fino a non tantissimi anni fa, l’astensionista andava incontro a una pena che lo metteva al pubblico ludibrio per qualche tempo, ora è l’elettore a essere sfottuto e non dall’impersonale Stato, bensì da alcuni degli uomini che lo rappresentano.
Questo referendum è stata la prova generale per quello, ben più importante a livello istituzionale e politico, di ottobre: il governo ha dato prova di avere nelle proprie mani la maggior parte degli elettori. Se Matteo Renzi, o chi per lui, prende posizione ecco le pecore che lo seguono senza porsi domande, assuefatte dalle supercazzole dell’uomo solo al comando. Che sia o meno reato l’invito tutt’altro che implicito all’astensione non è compito nostro dirlo, ma non ci sono dubbi che si tratti di un’esternazione vergognosa per un uomo di Stato. Il referendum è l’unico esercizio di democrazia diretta che la nostra Costituzione permette, non partecipare significa anche perdere il diritto a lamentarsi. Non doveva per forza vincere il «Sì», ma la battaglia politica doveva svolgersi dentro le urne e non tra votanti e astenuti. Non ci si dica che era un quesito difficile perché, sia pur con giornali e televisioni troppo spesso complici di una campagna di disinformazione degna di un regime, il cittadino ha il sacrosanto dovere di informarsi: «Conoscere per deliberare», diceva quel gufo di Luigi Einaudi. Visto che è un nostro diritto-dovere deliberare, è altresì doveroso informarsi, magari su quei pochi giornali e su quelle pochissime reti televisive che hanno spiegato per filo e per segno l’oggetto del referendum. Non ci sono scuse: chi si è astenuto ha compiuto una scelta che noi, seppur malvolentieri, rispettiamo, però dopo non si vada a dire che abbiamo perso ampi spazi di democrazia: l’abbiamo voluto noi.
Giornalista professionista e fotografo. Ho pubblicato vari libri tra storia, inchiesta giornalistica e fotografia