Il problema del Giappone: troppi posti di lavoro
All’interno di un mondo sempre più preoccupato per la continua automatizzazione dei mezzi produttivi che minaccia di portare la disoccupazione a livelli mai conosciuti prima, c’è uno Stato, il Giappone, in cui le cose sembrano andare per il verso opposto. In quasi tutto il resto dell’Occidente, infatti, c’è il grosso timore che in un futuro non troppo lontano i posti di lavori scarseggeranno drammaticamente, con previsioni, come quella effettuata in uno studio pubblicato nel 2013 da Carl Frey e Michael Osborne dell’Università di Oxford, di un loro dimezzamento, provocato da un numero sempre maggiore di compiti svolti da macchine intelligenti.
In Giappone, invece, sembrano avere tutt’altri problemi. A causa del crollo delle nascite, che ha portato a una popolazione sempre più anziana, per le aziende è sempre più difficile trovare qualcuno da assumere. Si stima che la nazione del Sol Levante perda un milione di abitanti l’anno e le aziende, come per esempio dichiarato dal presidente della Izumo Co., importante produttore di gomma nella prefettura di Osaka, sono costrette a spingere verso l’automatizzazione della maggior parte dei processi produttivi, non riuscendo a reperire sufficiente manodopera umana. Il governo appoggia ampiamente questa soluzione, col primo ministro Shinzo Abe che ha dichiarato di voler quadruplicare il giro d’affari nel settore della robotica da qui al 2020.
Un mondo futuro fortemente automatizzato è quindi non solo molto probabile, ma, verosimilmente, inevitabile. Da questo punto di vista, il vero problema, forse, non è l’automazione stessa, ma la mancanza di una società adeguata a essa e di un’offerta lavoro non corrispondente a quello che il mercato chiede. Per il primo punto, piuttosto che puntare su politiche che mitighino in modo artificiale la disoccupazione, con incentivi che spesso non fanno altro che distorcere, piuttosto che supportare il mercato, sarebbe forse ora di rassegnarsi all’idea di un futuro dove ampie fasce di popolazione non saranno costrette a lavorare per vivere, pensando a opportune forme di ridistribuzione. Per il secondo punto, bisogna capire che i profili richiesti in futuro saranno dotati di abilità soprattutto intellettuali e non manuali, come era la norma solo qualche decennio addietro. Da questo punto di vista, il trend è chiaro: basti pensare che a maggio la disoccupazione negli Stati Uniti tra chi possiede un dottorato era solo allo 0.7%, contro un 4.3% nazionale.