Quando l’utopia si trasforma in distopia
Utopia e distopia. Apparentemente due visioni agli antipodi. Per utopia intendiamo un non luogo, dove poter costruire il prototipo della società perfetta, da utilizzare come modello a cui tendere l mondo reale; mentre per distopia intendiamo una società altamente indesiderabile, dove vige un potere totalitario che comprime la libertà.
Per secoli i grandi utopisti sono stati filosofi e politici, oggi sostituiti da tecnologi e scienziati capaci di prospettarci incredibili passi avanti per l’umanità. Dall’altra, vista la pochezza della politica, di cui la famigerata utopia europeista rappresenta l’immagine perfetta, oggi i filosofi e i sociologi si sono ritagliati il ruolo di analisti delle possibili derive distopiche dei nuovi utopisti.
Spesso, però, questi modelli appaiono due estremi esclusivamente per il punto di vista dal quale si osserva uno stesso fenomeno. E allora accade che se per alcuni un modello rappresenti una perfetta utopia realizzata, per altri sia una persecutoria distopia. Pensiamo al nazismo, per esempio: utopia della perfezione per i nazisti, crudele distopia totalitaria per tutti gli altri (me compreso).
Questa vicinanza tra due opposti si verifica molto spesso nelle narrazioni utopiche, perché quando si è lavorato per raggiungere una perfezione a lungo sognata, ogni singolo cambiamento apportato a quel modello diventa un imperdonabile passo indietro. Che fare, allora? Reprimere la libertà, per impedire che la perfezione raggiunta possa essere distrutta da un processo democratico: arriva la repressione della libertà mediante l’occultamento della storia. Un occultamento guidato dalla propaganda che modella ciò che dev’essere verità e ciò che dev’essere menzogna. Il pensiero si schiaccia, diventa unico e chi esce dalla cornice diventa un millantatore, uno che diffonde fake news, come diremmo oggi. Si fa, come dire, un passo indietro a livello comunicativo: non si propongono più temi di discussione sociale, ma si pretende nuovamente di riproporre le teorie ipodermiche, con cui iniettare dosi di verità al popolo indifeso.
Spesso, tra l’utopia e la distopia, c’è di mezzo la catastrofe. Una catastrofe bellica, che rovescia l’ordine precedente e instaura un modello totalitario capace di garantire la pace e la stabilità, accettata dal popolo che paga con una perdita netta di libertà senza colpo ferire, pur di non dover nuovamente vivere una guerra. Questo è il modello principale che ritroviamo, dove la guerra non si vive affatto, in quanto la distopia comincia con il nuovo ordine ben impiantato. Il popolo perde la cognizione della realtà, occultata perfettamente dalla comunicazione propagandistica del regime. In queste condizioni non può avvenire neppure una sommossa di popolo, perché una reazione politica nasce dalla conoscenza di ciò che fu il passato, dalla sua analisi. Ma occultando la Storia, si priva della conoscenza la popolazione, intrappolandola in un perenne presente, dove la scienza può essere strumento chiave per funzionalizzare spazio, ruoli, tempo, riproduzione, modellando già alla base gli uomini che si susseguiranno.
Illuminante, proprio da quest’ultimo punto di vista, l’opera cardine della narrativa distopica: «Brave New World», di Aldous Huxley. Opera più volte rifunzionalizzata, di cui cercheremo di produrre un’attenta analisi prossimamente. Sarà utile per leggere il presente perché, come pensò Houellebecq, l’opera di Huxley, per gran parte del pubblico attuale, potrebbe essersi trasformata in un’utopia.
Simone, ventottenne sardo, ha vagato in giovanissima età per il Piemonte, per poi far ritorno nell’isola che lo richiamava. Ama scrivere su tematiche politiche ed economiche. Legge per limitare la sua ignoranza.