Quel che ci manca è il coraggio
Sono entrato per la prima volta in una redazione di un giornale che non avevo nemmeno 20 anni, quasi un anno fa, iniziando la mia collaborazione con il Corriere del Veneto, il dorso regionale del ben più noto Corrierone. Per le mie precedenti esperienze giornalistiche, la testata ufficiale del mio liceo, usavamo una stanzetta e le riunioni non erano altro che un caffé insieme ai distributori automatici, «Eravamo quattro amici al bar», ma forse ancora peggio: spesso eravamo in due e non ci potevamo neppure permettere un caffé da 1 euro, ripiegando su quelli liofilizzati da 30 centesimi. Però, a differenza anche di molti «grandi» del giornalismo italiano contemporaneo, noi ci credevamo, avevamo una «missione» ed eravamo pronti a tutto per raggiungere il nostro obiettivo, per essere un giornale libero, senza censura. Mi accorsi – nel frattempo la condirettrice aveva avuto la brillante idea di lasciarmi da solo alla guida di Fermi un Atomo – di puntare solo ad un’utopia: pur non trattando argomenti «scomodi», rischiai, in quinta liceo, la mia prima querela: un’insegnante che, probabilmente, aveva difficoltà a tenere a freno la propria lingua, mi accusò di aver riportato una frase che lei non aveva mai detto. Non so se fossi stato perseguibile per questo, in ogni caso, viste anche le posizioni prese da chi avrebbe dovuto proteggermi, decisi di dimettermi. E così finì un’avventura che, fra alti e bassi, durava da quattro anni e a cui avevo dato tutto me stesso. Come spesso succede quando parlo della mia esperienza, desidero sottolineare che il mio scopo non è l’autoelogio: chiunque avesse avuto lo stesso coraggio e la stessa motivazione che avevo io avrebbe potuto fare quello che ho fatto. Il problema è che non è proprio così: leggendo le pagine del giornalino diretto dai miei successori non ho trovato lo stesso coraggio che ci mettevo io. Non si tratta di temerarietà che, come diceva qualche anno fa Aristotele, è la completa assenza di paura e, per questo, da rifuggire: il nostro era il coraggio di portare avanti le idee in cui credevamo, il coraggio di prendere una posizione in un luogo in cui, per qualche strano principio, non è contemplata la presenza della politica. Ma la scuola dovrebbe essere un luogo di confronto, un «allenamento» per quella che sarà la vita adulta; non una gabbia dorata in cui si è protetti ma anche, inevitabilmente, limitati.
Ma non divaghiamo: il giornalino che facevo non era un capolavoro, per così dire: c’erano articoli più belli, altri meno belli ed io, a parte il consueto editoriale di apertura e qualche pezzo «tappa buchi», mi occupavo più che altro dell’impaginazione e della vendita. Il merito andava ad una squadra che, in un modo o nell’altro, eravamo riusciti a costruire. Eravamo liberi, almeno abbastanza da poter scrivere quello che volevamo (sempre senza toccare l’argomento politica). Ora, me ne sono accorto parlando con i miei successori, non è più così. Non voglio limitare il discorso al mio liceo perché sono convinto che ci riguardi tutti, soprattutto noi giovani: sembreranno banalità, però siamo davvero nell’epoca del «disinteresse» anche verso le cose che ci riguardano: politica, cultura e così via. Non me la sento di imputare questa colpa ai diretti interessati: non credo che si siano raggiunte soglie di masochismo così alte. Ritengo piuttosto che sia una sorta di «disinteresse forzato»: da parte di genitori magari già disinteressati, da parte della scuola che tende a trattare la politica e l’attualità come argomenti tabù, e soprattutto da parte delle istituzioni che così sono libere di fare i propri porci comodi, senza dover rendere conto a nessuno. La risposta, se qualcuno un giorno chiederà loro spiegazioni, è lapalissiana: «Non ci avevate chiesto nulla».
Rivolgo a tutti voi, soprattutto ai miei coetanei e ai miei successori alla guida di Fermi un Atomo, un disperato appello: abbiate il coraggio di dire la vostra, di opporvi alle «censure» e alle regole che vi appaiono insensate. Siate convinti di quello che fate, sempre.
Tito G. Borsa
Giornalista professionista e fotografo. Ho pubblicato vari libri tra storia, inchiesta giornalistica e fotografia
Vengo da una generazione e conseguentemente da una scuola fortemente politicizzate. Gli anni Settanta non sono stati oggettivamente né brutti né belli, né migliori né peggiori di altri decenni. Ma per noi ventenni di allora SONO STATI! Cioè hanno lasciato il segno. L’idea di poter cambiare qualcosa con il proprio impegno, per esempio, o la convinzione di avere il diritto di esigere risposte insieme al dovere di essere coerenti e leali. Ebbene, tutto questo lo devo al liceo che frequentavo allora. Gli studenti di oggi potrebbero dire lo stesso delle scuole che frequentano?