Quello che il PIL non dice
In varie occasioni il Partito Democratico ha assalito l’attuale Governo brandendo tra le mani i risultati sul PIL riportati dal nostro Paese quando esso si trovava alla guida dell’esecutivo. Effettivamente, secondo l’Istat, l’Italia è passata dal -1,7% del Pil del 2013 (anno precedente all’insediamento di Renzi a Palazzo Chigi) al +0,9% del 2016 (anno delle dimissioni di Renzi).
Va dato merito alla passata maggioranza di questo successo, tuttavia risulterebbe superficiale accontentarsi di questo dato per acclamare il PD. Il PIL, infatti, è indice della ricchezza del Paese, ma non dà un ritratto della distribuzione reale di questa: insomma, non rileva le diseguaglianze, la povertà, il precariato, l’accesso ai servizi. Perciò, è plausibile registrare un suo innalzamento, ma è al contempo possibile che le condizioni generali della popolazione rimangano invariate, se non che peggiorino, se solo gli altolocati accrescono le loro finanze e migliorano il loro tenore di vita.
A questo proposito, è giusto mostrare alcuni dati per smentire un presunto progresso durante la legislatura a maggioranza PD.
In primis, dobbiamo riportare alla memoria come si andava rafforzando il fenomeno del precariato. Secondo il Centro studi di Unimpresa crescevano gli occupati precari. In un anno, tra il 2015 e il 2016, saliva il numero dei contratti di lavoro a tempo determinato, sia part time (803mila persone) sia a orario pieno (1,71 milioni). Calavano, invece, i collaboratori (-34mila) e i contratti a tempo indeterminato part-time (2,67 milioni in tutto). È indubbio che, pur camuffando quest’andamento con inni alla flessibilità, sono numeri che testimoniano incertezza e difficoltà per i lavoratori coinvolti.
Con gli impieghi sempre più altalenanti, anche la povertà assoluta, nonostante il PIL incoraggiante, scalava vette preoccupanti. Proprio nel così florido 2016, dal punto di vista del prodotto interno lordo, l’Istat stimava fossero 1 milione e 619mila le famiglie residenti in condizione di povertà assoluta, nelle quali vivevano 4 milioni e 742mila individui; numeri, questi, che sono diventati ancora più corposi l’anno seguente, sempre secondo l’Istituto Nazionale di Statistica: 6,9% per le famiglie (da 6,3% nel 2016) e 8,4% per gli individui (da 7,9%).
Ancora, ci imbattiamo in una discrepanza notevole rispetto alla millantata crescita di quel periodo: sempre di più i soggetti così indigenti da non potersi curare. Sì, perché la sanità pubblica è ridotta all’osso e per una visita o un esame diagnostico celere ci si deve rivolgere al privato lucrante. Così, nel 2016, 12,2 milioni di italiani hanno rinunciato o rinviato prestazioni sanitarie. Di questi 2/3 erano affetti da malattie croniche, a basso reddito, donne e non autosufficienti. Inoltre, 7,8 milioni di italiani sono stati costretti a usare per le spese sanitarie tutti i loro risparmi o sono giunti addirittura a indebitarsi.
Questi sono certamente i frutti dei tagli alla spesa pubblica comportati ex. art 81 Cost. revisionato tramite legge cost. 1/2012, che si riferisce ai parametri di Maastricht, i quali hanno messo in crisi lo stato sociale e fatto crollare la domanda interna.
In questi giorni si parla nuovamente della necessità di aggredire il nostro rapporto debito/PIL, reputato eccessivo dalla Commissione Europea. L’UE ci domanda di tagliare la spesa, i sovranisti indicano invece nel rafforzamento del PIL la soluzione. Da quanto illustrato poc’anzi, però, si deve tenere presente che il PIL in sé è povero di rappresentazione della realtà sociale e non è garanzia di uniforme benessere. La priorità deve, dunque, essere non solo il suo incremento, ma ripristinare l’uguaglianza sostanziale, come imposto dal secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione.
Classe 1995, laureata in giurisprudenza.
Il diritto e la politica sono il mio pane quotidiano, la mia croce e delizia.
Vi rassicuro: le frasi fatte solo nelle informazioni biografiche.