RdC assistenzialista? Macché, è quasi liberista
I detrattori che mettono alla berlina il reddito di cittadinanza lo fanno dicendo che esso elargirà soldi a chi sta sul divano a fare niente alla faccia di chi lavora. I suoi sostenitori affermano che il RdC, addirittura, abolirà la povertà. Tra le due non vi è dubbio che è più probabile la prima, ma, mentre dire «Abbiamo abolito la povertà» è una cosa così stupida da rasentare l’innocenza del fanciullo, l’altra è di un’insopportabile retorica piccolo borghese. La realtà è che al momento il decreto, seppure sia già stato varato dal consiglio dei ministri, rimane una grande incognita. Per verificare gli effetti e l’efficacia di questa misura occorreranno mesi, durante i quali di volta in volta si dovrà verificare cosa funziona e cosa invece no.
Sarà inevitabile che molti aspetti non funzioneranno e non per questo ci si dovrà scandalizzare, sebbene sia facile immaginare come i media di massa saranno pronti a starnazzare il fallimento della misura quando, al contrario, occorrerà aggiustare le storture e andare avanti. Il grande errore di Di Maio è stato quello di aver puntato tutto sul RdC convinto così, mantenendo le promesse, di conservare i voti per l’europee, dimenticando invece che gli italiani sono quasi tutti dei piccoli borghesi: appena parli seriamente di dare due soldi a chi è più in difficoltà (seppur ci siano mille condizioni per riceverli) si sentono derubati: «Ma come? Io lavoro dodici ore al giorno e pago un mucchio di tasse e lo stato pensa a mantenere chi non fa un cazzo».
In verità, la misura uscita dal Consiglio dei Ministri, modificata per andare incontro alla Lega, se riesce a funzionare è tutt’altro che assistenzialista. In un certo senso, è quasi liberista. 100 km di spostamento per lavorare sono tanti come prima offerta. La misura, infatti, è imperfetta se non c’è un salario minimo orario fatto seriamente, perché si rischia di abbassare il livello degli stipendi adeguandolo a quello del RdC. Il meccanismo poi è inefficace se lo Stato non investe per creare lavoro là dove le imprese non riescono a farlo (come il Sud). Bisogna sperare in una cosa: che i tanti giovani che riceveranno- si spera- la chiamata del fantomatico navigator si tirino su le maniche e inizino a ricostruire questo Paese. Più che un patto per il lavoro, si dovrebbe firmare un patto per l’Italia. Purtroppo, se serviranno operai e non laureati in Scienze Politiche, bisognerà adeguarsi, o sarà la fine. Però al contempo a questi ragazzi bisognerà garantire un futuro sereno e diritti sociali, sennò tanto varrà stare sul divano e sprofondare nell’abisso.
Nato nel 1993, felicemente piemontese. Dopo gli studi di ragioneria, mi sono addentrato in quelli di Lettere, conseguendo la laurea triennale. A breve, arriverà anche il titolo magistrale.