Referendum: è nostro dovere votare informati

C’è qualcosa di assolutamente normale ma altrettanto perverso nel modo in cui molti nostri concittadini vedono il referendum costituzionale: che importa il voto, tanto ci fregano comunque. Questa assoluta assenza di fiducia nello Stato e nelle istituzioni, concepite come ingiuste a prescindere, ha radici antiche: basti pensare che è presente addirittura nella Repubblica di Platone.

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Purtroppo, tornando ai giorni nostri, è difficile dare torto a chi nutre questi dubbi. Pur senza voler cadere nelle più stolte generalizzazioni, pare evidente che ci sia qualcosa di intrinsecamente ingiusto (e dannoso per i cittadini) nelle istituzioni: un male atavico che nessuna riforma costituzionale potrà mai estirpare, un egoismo dei singoli che, giunti al potere, continuano a comportarsi come privati cittadini, pensando solo al proprio benessere, dimenticandosi di avere degli obblighi, etici e legali, dovuti alla carica che ricoprono.
Una situazione come questa non può avere una soluzione immediata, per quanto drastica, quindi i comportamenti da adottare in modo razionale e non generalizzante e distruttivo sono essenzialmente due: il primo consiste nel seguitare a disinteressarsi della cosa pubblica preferendo a essa il proprio privatissimo orticello, la seconda invece porta a «provarci», a cercare di metterci in gioco, anche se le stanze del potere ci paiono lontane e potenzialmente inaccessibili. Lungi da chi scrive intraprendere una carriera politica o invitare qualcuno a farlo,  il modo in cui si rendono le decisioni più vicine è, molto semplicemente, accogliendo con entusiasmo ogni possibilità che abbiamo di dire la nostra. Non il mero voto, quindi, bensì un lavoro che comincia molto prima, un approfondimento individuale per conoscere la materia su cui poi si sarà chiamati a esprimersi (i programmi dei partiti oppure l’argomento di un referendum) e un confronto intelligente e costruttivo con gli altri, così da discutere e rafforzare le proprie idee oppure, nel caso in cui si incontri qualcuno di convincente, prendere in considerazione anche l’idea opposta. Si tratta, come è evidente, di un procedimento particolarmente rischioso, che potrebbe sfociare (se utilizzato sine grano salis) in un relativismo totale. Forse però ne vale la pena: esercitare la propria sovranità è al contempo un diritto e un dovere del cittadino, dovere che va svolto in modo approfondito, diritto che va messo in pratica nel modo più saggio possibile.
Non vogliamo darvi lezioni di cittadinanza e nemmeno farvi la morale: se avete perso ogni fiducia nelle istituzioni, possiamo capirvi dato che (e parliamo solo degli ultimi anni) sono state proprio le istituzioni a essere le protagoniste indiscusse degli scandali e delle ruberie, dell’egoismo e dell’«antipolitica». Quest’ultimo termine non è utilizzato in modo casuale: l’«antipolitica» non è il Movimento 5 Stelle, come dice qualcuno; in essa trovano posto tutti coloro che sono mossi da pensieri e desideri (poi messi in pratica) contrari allo spirito di servizio verso i cittadini, che è poi la politica.
Non vogliamo darvi lezioni né farvi la morale, ma invitarvi – molto più modestamente – a una riflessione: il 4 dicembre verremo chiamati a esprimerci su un quesito al contempo semplice e complesso, semplice perché non ci saranno «forse» di sorta, solo un Sì o un No, ma complesso per chi abbia la voglia e il tempo di approfondirlo, esercitando così il suo dovere di cittadino partecipe.
Partecipare alla politica non vuol dire avere una tessera in tasca, non vuol dire schierarsi con un partito, non necessariamente almeno. Prendere parte alla vita del proprio paese significa schierarsi con un’idea, prendere una posizione (anche indipendentemente dalle forze politiche che la prendono) e per far ciò bisogna informarsi, spendere del tempo a studiare. È faticoso? Sì, ma è il nostro dovere perché siamo noi a essere sovrani.
Chi scrive ha girato in lungo e in largo il web negli ultimi giorni e questo ha portato a una sorta di esperimento sociale, seppur senza alcuna pretesa di valenza statistica: a proposito del referendum, abbiamo provato a chiedere ai sostenitori del Sì una cosa semplicissima: «Perché?». Abbiamo chiesto loro le motivazioni di questo voto, augurandoci che scaturissero argomentazioni forti, solide e idonee per intavolare una discussione. Siamo stati degli illusi: «Perché me lo dice il grande Renzi», «Perché sì!», «Perché si risparmiano 500 milioni all’anno», sono state alcune delle risposte che abbiamo ottenuto. A parte l’ultima che è semplicemente una bugia, ci auguriamo detta in buona fede, le altre due mostrano che sotto le intenzioni di voto di questi soggetti ci sia solo la partigianeria più becera. Magari saremo strani noi, però – dopo esserci preparati approfondendo un argomento – ci rende felici mostrare agli altri la propria preparazione. Questi signori a cui abbiamo chiesto le ragioni di un voto non hanno nemmeno accennato a una motivazione che esuli dalla figura del premier oppure dalla propria appartenenza politica. E questo è davvero un peccato.
I referendum sono le occasioni ideali per prepararci, per confrontarci e per prendere parte attivamente alla vita del nostro paese. Anche prima del voto: la partecipazione popolare è il massimo esempio di democrazia e noi qui la stiamo bruciando sull’altare della figura politica di turno e della lotta fra bande che in Italia chiamiamo confronto politico. Ogni tanto verrebbe voglia di mandare tutto all’aria, chiudersi in un eremo fino alla fine del referendum ma finito un pretesto se ne fa un altro: siamo in una campagna elettorale perpetua dove i fatti sono stati soppiantati dalle promesse. Matteo Renzi, e non solo lui, cerca sempre consenso e questo nuoce al paese. Le mosse più rapide e più concrete (tipo i 500 euro ai diciottenni) di rado si rivelano efficaci nel lungo periodo.
Vorremmo chiuderci in un eremo ma il nostro posto è qui, con voi, a cercare di vincere una battaglia che sembra persa in partenza. Lo dobbiamo alla nostra Costituzione e lo dobbiamo a voi lettori. I mezzi che abbiamo sono infinitesimali in confronto a quelli di chi fa campagna per il «Sì», ma non possiamo tirarci indietro. Ancora due mesi in cui cercheremo di fare il possibile per far capire ad almeno un indeciso che neppure l’homo novus (si fa per dire) Renzi ha il diritto di ammazzare la nostra Costituzione.