Se ne parla, ma che cos’è l’ergastolo ostativo?

Viste le recenti notizie, legate ad alcune sentenze in materia di ergastolo ostativo, che hanno animato il dibattito pubblico, riteniamo importante provare a fare un po’ di chiarezza tra quello che viene definito semplicemente ergastolo e l’ergastolo ostativo.

L’ergastolo, come dispone L’art. 22 del Codice Penale, è una pena perpetua ed è previsto in particolare l’isolamento notturno. Il carattere perpetuo è però mitigato dalla possibilità concessa al condannato all’ergastolo di poter usufruire di determinati benefici, come la Legge Gozzini del 1986 che offre molteplici possibilità di uscire temporaneamente dal carcere, in relazione ai progressi compiuti in un percorso rieducativo intrapreso durante l’esecuzione della pena:
-dopo 10 anni, il condannato può essere ammesso al lavoro all’esterno (art. 21 co. 1 ord. penit.) – lavoro presso imprese pubbliche o private, o presso pubbliche amministrazioni, o anche lavoro autonomo – e ai permessi-premio (art. 30 ter co. 4 lett. d ord. penit.)
– dopo 20 anni, alla semilibertà (art. 50 co. 5 ord. penit.). 

L’ergastolo ostativo, invece, non permette al detenuto di usufruire dei benefici che si possono ottenere tramite l’ergastolo «normale», come il lavoro all’esterno, i permessi, le licenze, la detenzione domiciliare, la semilibertà (dopo 20 anni) ed altri, se non ha collaborato con la giustizia.
Il carcere ostativo viene applicato al regime carcerario corrispondente all’articolo 4 bis del regolamento penitenziario italiano. L’articolo 41bis, citato in molteplici occasioni durante le settimane scorse, non ha invece nulla a che fare con il carcere ostativo. Difatti non è corretto paragonare, dal punto di vista giuridico,  l’articolo 4bis del regolamento penitenziario italiano all’articolo 41bis. 

Marcello Viola, condannato definitivamente nel 1999 per associazione a delinquere di stampo mafioso (art.416bis) e altri reati, in carcere dal 1992 al 41bis, dal 2000 ha cominciato a compiere battaglie legali per riconoscere i diritti dei detenuti, soprattutto quelli sotto il regime del 4bis e del 41bis. In seguito alle sue battaglie giuridiche il 14 marzo 2006 è passato dal regime del 41 bis al regime del 4bis, migliorando così la qualità del suo vivere all’interno del carcere poiché gli è stata riconosciuta la cessazione dei contatti con la cosca di riferimento (ma non è mai diventato collaboratore). Volendo ottenere ulteriori diritti rispetto a quelli già riconosciuti ha affidato il suo caso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale, facendo riferimento all’art.3 della Convenzione dei diritti dell’uomo («Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti») ha sentenziato sulla parte riguardante l’ergastolo ostativo attraverso le seguenti giustificazioni: «La collaborazione con la giustizia può offrire ai condannati all’ergastolo ostativo una strada per ottenere questi benefici, ma la scelta di non collaborare può dipendere dal timore di mettere al repentaglio la propria vita e quella dei propri congiunti. In effetti, in un episodio di collaborazione, quello di Tommaso Buscetta, undici furono i suoi parenti uccisi durante la sua testimonianza al Maxi Processo seguito da Falcone. Di conseguenza la mancanza di collaborazione non deriverebbe sempre da una scelta libera e volontaria di adesione ai valori criminali e di mantenimento di legami con l’organizzazione di appartenenza».

Il 23 ottobre si è espressa anche la Corte Costituzionale sul tema dell’ergastolo ostativo (si era già pronunciata in passato) dichiarando illegittimo il comma 1 dell’art. 4bis nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo. Il comunicato della Corte dichiara: «la presunzione di pericolosità sociale del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del Carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica».