Anche l’Europa si schiera contro il sessismo
È stata effettuata una modifica: Il titolo precedente dell’articolo era fuorviante, perché sembrava presupporre che il sessismo fosse combattuto adeguatamente già a livello europeo, quindi che non fosse il caso di combatterlo ulteriormente. Ce ne scusiamo con i lettori e con l’Autrice per questa svista e questa eccessiva e confusa semplificazione. (t.b.)
Quando vi dicono che il femminicidio non esiste, o che la violenza contro le donne nel nuovo millennio non è più un problema, ricordatevi della convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, meglio conosciuta come Convenzione di Istanbul. Se si è ritenuto di dover mettere a punto un testo apposito, magari vuol dire che tanti problemi non hanno ancora una soluzione.
Il testo, votato dal Consiglio dei ministri d’Europa il 7 aprile 2011, è in vigore dal 1 agosto 2014. Composto da 81 articoli divisi in 12 capitoli, intende combattere la violenza e la discriminazione contro le donne su tutti i fronti: prevenzione, protezione e sostegno delle vittime, perseguimento dei colpevoli e politiche integrate: il solo inasprimento delle pene non è necessario, perché la violenza è considerata un prodotto della cultura. Tra i paesi che l’hanno ratificata, che sono 19, c’è anche l’Italia. Questo è il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che regola la lotta alla violenza e la discriminazione contro le donne: quanto disposto dal testo deve essere inserito nel codice penale statale, e devono farvi seguito una serie di provvedimenti, come per esempio maggiori finanziamenti ai centri antiviolenza. A oggi, nel nostro paese, questo è accaduto solo in parte.
Sicuramente l’aspetto fondamentale è il riconoscimento della violenza contro le donne (anche minori di 18 anni) come una violazione dei diritti umani. L’articolo 3 definisce poi in maniera più completa il concetto di violenza, comprendendo «tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica». Per genere si intendono i ruoli, i comportamenti, le attività e gli attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini.
Ma che vuol dire? Vuol dire per esempio che fin da piccoli ci insegnano che ci sono cose da maschi e cose da femmine: le bambole sono da femmina, i camion da maschi e così via. Questo nell’età adulta si traduce in una divisione del lavoro discriminante: ci dicono che ci sono lavori da uomini e lavori da donne. Si legano poi l’assenza della parità di genere (in ogni contesto) e la violenza, punto che fatica a essere capito nel nostro paese come in altri. Questa assenza è riscontrabile soprattutto nei media, con i quali si intende tutto il mondo dell’informazione, dal giornalismo, ai social, al cinema. La rappresentazione della figura femminile continua a essere vittimistica o colpevolizzante, a seconda dei casi. Grave è poi l’esistenza, scoperta di recente, di gruppi Facebook in cui uomini e ragazzi pubblicavano foto di loro amiche o fidanzate senza alcuna autorizzazione, e in seguito si prodigavano in insulti indegni di essere riportati per iscritto. Questa non è libertà, è violenza, e ciò vuole comunicare, tra le altre cose, la Convenzione.
L’applicazione della Convenzione è monitorata da due organismi di esperti ed esperte, uno indipendente e uno composto dagli Stati parti, incaricati di fare raccomandazioni per garantire l’efficacia effettiva del trattato. L’articolo 8 si occupa delle risorse finanziarie, da incrementare. A questo proposito governo italiano con la legge 119/2013 (contro il femminicidio) ha stanziato 17 milioni di euro. Di questi, ai 352 centri antiviolenza e case rifugio presenti sul territorio italiano andranno circa 2 milioni di euro, il che vuol dire una somma di 6mila euro per centro, senza distinzione tra privato e pubblico. Il settore pubblico però ha sede, utenze e personale già pagato. I centri antiviolenza invece operano grazie al lavoro volontario di avvocate, psicologhe e operatrici, e si occupano anche della formazione di queste ultime.
Il governo non ha neanche formulato un piano nazionale antiviolenza, che sarebbe necessario per applicare la Convenzione nel concreto. Di questo in compenso si sta occupando il movimento Non Una Di Meno, che a novembre scorso e a febbraio 2017 ha raccolto più di 2000 donne e uomini provenienti da tutta Italia, per mettere a punto un piano da presentare a livello governativo. In un modo o nell’altro, la Convenzione deve applicarsi.
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