Siamo tutti «Humans»: da New York ai migranti
Ciò che forse ci avvicina di più alle altre persone tramite i freddi e materiali schermi del computer è l’empatia che proviamo per le loro esperienze, per le loro storie, per le loro opinioni. Forse è per questo che si condividono foto di vita quotidiana online: per un senso di condivisione che ci fa sentire più vicini agli altri, pur ognuno nella sua stanza. Quello però che ci dimentichiamo è che una persona non può essere raccontata, né capita, soltanto attraverso il panino che ha mangiato a pranzo, la maglietta di marca che indossa o il luogo in cui è stata nel weekend. Le persone sono di più, tanto di più, ognuna racchiude una storia e raccontarla potrebbe farci sentire meno soli in un modo più intelligente: non perché abbiamo gli stessi gusti di cibo o di moda, ma perché condividiamo un’esperienza, che sia positiva o negativa, che ci ha fatto crescere o che ci ha cambiato.
Nell’era della tecnologia e dei social network in cui la maggior parte delle persone si conoscono, si parlano e si «vedono» soltanto attraverso questi mezzi che non riescono a cogliere del tutto la totalità delle persone, è sempre più importante cercare dei modi grazie ai quali non dimenticarsi di ciò che rende gli esseri umani tali, per rendere un po’ meno «freddi» anche gli strumenti tecnologici. Avvicinare le persone ad un livello superiore e creare empatia è quello che è riuscito a fare Brandon Stanton, fondatore del blog «Humans of New York».
Nella sua presentazione Brandon si definisce «passionate about things»: gli acquari, il pianoforte, la finanza, la lettura, New York City e la fotografia. Dopo aver studiato Storia all’università della Georgia e aver lavorato per un po’ nell’ambito della finanza a Chicago, si è trasferito a New York e ha iniziato il suo progetto di storyteller. Quello che fa è semplicemente girare per la città collezionando foto e racconti delle persone che incontra e raccogliendole nel suo blog che ad oggi è uno dei più visitati al mondo. Un’idea semplice che si applica anche in modo semplice (bastano una macchina fotografica, un registratore e tanta pazienza), ma che ha avuto un impatto mediatico enorme e che ha avuto successo probabilmente proprio grazie all’empatia che riesce a creare. È incredibile come vedere la foto di uno sconosciuto e leggere la didascalia che la accompagna rendendosi conto che quello che dice magari un po’ ci appartiene, o magari anche no ma ci ha fatto riflettere o emozionare, sia spesso più semplice che esprimere a parole quello che noi vorremmo dire. È un sentimento comune, infatti, accorgersi che le parole di qualcun altro sono quelle che avremmo voluto dire noi, senza sapere come fare. Ed evidentemente questo metodo funziona: ha iniziato nel 2010 e oggi la pagina Facebook «Humans of New York» conta 16 milioni di followers, la pagina Instagram 4,7 milioni.
HONY (Humans of New York) è diventato anche un libro, che nonostante sia una raccolta stampata di quello che si può trovare online nel blog e che probabilmente già era stato letto, è rimasto per 29 settimane nella New York Times best seller list. Per di più, l’idea di HONY è stata uno spunto per moltissimi altri blog chiamati «Humans of…» in giro per il mondo e Brandon si è fatto promotore di moltissime campagne di raccolta fondi per le cause più disparate, ma tutte human, sfruttando la notorietà in modo tale da ricavarne dei benefici per qualcun altro.
Ma perché l’idea di Brandon Stanton ha avuto così tanto successo?
Uno dei principali motivi è la semplicità con cui tutto il lavoro viene affrontato e anche presentato, sicuramente poi l’emozione che traspare dalle storie, che non sono mai banali e che se non fanno sorridere fanno emozionare, le rare volte che non sorprendono ti fanno riflettere. E poi sicuramente c’è il fattore del mezzo: ognuno da ogni parte del mondo può entrare nel blog e leggersi qualche storia, conoscere qualcuno da lontano senza incontrarlo mai, rimanere sorpreso dalla vita di qualcun altro e, perché no, prendere spunto dalle esperienze e avventure degli altri per farle proprie.
Le foto ritraggono persone ormai di tutto il mondo, Stanton era partito da New York e i newyorkesi venivano fermati per le strade della loro città, accettavano di scambiare due parole col fotografo e contro ogni aspettativa si aprivano con lui rivelando storie molto personali. Il metodo funzionava e quindi da New York è partito poi per più di 20 paesi al mondo, tra cui Iran, Iraq, Pakistan, Congo, Kenya, Uganda, Vietnam, Nepal, Messico.
Ma il suo progetto non è «fine a se stesso», lo dimostra il lavoro che ha svolto in Europa con l’agenzia dell’Onu l’UNHCR nel settembre 2015 raccogliendo le storie di migranti e rifugiati che giungevano in Europa scappando dalla guerra che distruggeva le loro terre d’origine, per cercare di sensibilizzare l’opinione pubblica e far avere un impatto mediatico il più grande possibile a quello che accadeva sotto i nostri occhi. Questa iniziativa è stata altrettanto seguita sui social network, ed è di un valore inestimabile, perché ancora una volta il fotografo è riuscito a recuperare un lato delle persone che i telegiornali o qualsiasi notizia di cronaca o ignora o devia. E sicuramente a questo progetto va riconosciuto il merito di essere riuscito, in qualche raro caso, a far aprire gli occhi a tutti quelli che rimangono impassibili di fronte alle tragedie degli altri: perché forse i racconti di questi altri ci hanno fatto comprendere a pieno la gravità della situazione, l’impossibilità di lasciar correre o girare lo sguardo dall’altra parte e più di ogni altra cosa il fatto che, alla fine, siamo tutti «Humans».