Gli slum, terribile patria del nuovo proletariato
Dalla nostra corrispondente Nairobi, Kenya
All’incirca nel 2015 è accaduto un fatto di grande importanza per il nostro pianeta, ma che probabilmente è passato inosservato alla maggior parte di noi: la popolazione urbana mondiale e quella rurale hanno raggiunto livelli sostanzialmente equivalenti. Si stima che già nel 2030 si potrebbe passare a uno squilibrio più intenso, con circa il 60% della popolazione mondiale stipata nelle città. Le aree geografiche in cui questo fenomeno è più intenso sono, come è facile intuire, l’Asia e l’Africa.
Tutto ciò potrebbe sembrare positivo, da un certo punto di vista. Dopo tutto, nella maggioranza dei casi, la città implica maggiori servizi, trasporti più semplici, maggiori occasioni di lavoro. Purtroppo, però, un’urbanizzazione armoniosa e controllata, nella maggioranza dei casi, non corrisponde affatto alla realtà.
La prima, lampante prova di quanto questa situazione sia sfuggita al controllo degli Stati e delle organizzazioni internazionali è il moltiplicarsi dei cosiddetti slum, insediamenti informali spesso sovrappopolati e completamente privi di qualsiasi servizio essenziale, dalle fogne all’acqua corrente. Secondo la definizione tecnica, gli slum ospitano persone senza alcun diritto di proprietà sui terreni né sulle loro abitazioni (che spesso sono solo ammassi di lamiera e cartone), ma possono essere definiti slum anche alcuni insediamenti dove esistono palazzi in muratura e dove le famiglie vivono in affitto, come nel caso di Huruma, in Kenya. In epoca coloniale, la zona era adibita a coltivazioni nei pressi delle quali i lavoratori soggiornavano. Con il cambio di proprietà del terreno, questi furono allontanati e iniziarono a creare quello che oggi è lo slum di Huruma. Molti ora vivono in fatiscenti palazzoni, dove numerose famiglie si trovano a dover pagare affitti sproporzionati per una singola stanza, tanto più considerato che il rischio di crolli è altissimo (l’ultimo risale ad aprile di quest’anno). Tuttavia è sbagliato credere che il fenomeno appartenga solo al «terzo mondo». Slum sono esistiti ed esistono ancora anche nel «nostro» mondo: c’è Harlem, a New York, quartiere nero e pericoloso per eccellenza, ma in un certo senso anche Scampia, a Napoli.
Le ragioni della loro creazione sono molteplici e complesse, ma lo sono altrettanto le ragioni che spingono gli abitanti degli slum a rimanerci. Non sempre, infatti, chi vive in questi luoghi insalubri è nullatenente. Molti hanno uno stipendio, per quanto non molto alto, e molti progetti che hanno tentato di ricollocare alcuni abitanti in altri quartieri appositamente costruiti si sono rivelati un fallimento: molti, dopo poco tempo, tornavano nelle loro capanne, circondati da scoli di acque reflue e immondizia. Perché?
A parte alcuni errori metodologici che hanno inficiato sul nascere questi piani di trasferimento (spesso imposti dall’alto senza nessun dialogo con la popolazione), ciò che spesso non viene considerato è il «fattore umano», ovvero le reti di aiuto reciproco, formali e non, che si creano frequentemente tra gli abitanti degli slum. Il senso comunitario è, in qualche modo, ciò che sopperisce alle mancanze in termini economici e di servizi e non è immediatamente riproducibile da zero nei nuovi complessi urbani che dovrebbero accogliere gli sfollati. è per questo che, negli anni più recenti, si è iniziato a proporre il concetto di «slum upgrading», cioè il tentativo di migliorare in loco le condizioni di vita degli abitanti, senza dunque ricorrere a trasferimenti forzati o a pure e semplici «ruspe».
L’idea potrebbe anche funzionare. Ma molto dipenderà dalle volontà politiche dei singoli Stati coinvolti, spesso attraversati da canali di corruzione facilmente sfruttabili da parte di chi possiede il potere di corrompere, e non certo dagli abitanti degli slum che dovrebbero, invece, godere dei frutti di questi investimenti.