Società aperta, spazi democratici chiusi
La recente chiusura delle pagine e dei profili legati a Casa Pound Italia e a Forza Nuova da parte di Facebook e Instagram ha sollevato un acceso dibattito sulla tolleranza e sulla libertà di espressione. A tal proposito si è spesso evocato il noto paradosso della tolleranza di Karl Popper, secondo cui una società tollerante non può permettersi di tollerare l’intolleranza che potrebbe distruggerla. D’altra parte si assiste ad alcuni tentativi di assolvere il filosofo viennese dalla responsabilità dell’uso smaccatamente ideologico che del suo paradosso fa la sinistra regressiva e di salvare il nucleo filosofico fecondo del suo pensiero.
In realtà il carattere ideologico di questo concetto è già evidente nel Platone totalitario, nota 4 del capitolo VII: «In questa formulazione, io non implico, per esempio, che si debbano sempre sopprimere le manifestazioni delle filosofie intolleranti», ci rassicura Popper; ma – nota bene – solo «finché possiamo contrastarle con argomentazioni razionali e farle tenere sotto controllo dall’opinione pubblica». Qualora invece le forze avversarie «non siano disposte a incontrarci a livello dell’argomentazione razionale, ma pretendano di ripudiare ogni argomentazione», se cioè – fuor di retorica – non accettano per fede i dogmi del liberalismo che viene qui presentato come l’esito necessario e prestabilito di ogni dibattito razionale, allora occorre «proclamare che ogni movimento che predica l’intolleranza si pone fuori legge» (La società aperta e i suoi nemici, vol. I, Armando Editore, Roma 1981, p. 360).
Dunque il pensatore austriaco non proponeva di vietare solo le “azioni intolleranti” compiute «con l’uso dei pugni e delle pistole» alle quali pure accenna, come ci narrano i suoi solerti difensori d’ufficio, ma altresì la propaganda di “idee intolleranti”, ossia le forme di discorso che esulano dai campi semantici funzionali alla (o compatibili con la) riproduzione sistemica della società capitalistica.
Pertanto il ricorso all’etichetta di intolleranza per demonizzare e reprimere il pensiero altrui non è un uso ideologico e strumentale della filosofia di Popper, bensì una conseguenza tanto implicita quanto inevitabile del suo paradosso – che naturalmente non indica chi siano i nuovi Hitler contro cui premunirsi, ma pone le condizioni di possibilità per raffigurare in quel modo tutti i critici dello status quo.
E l’aspetto filosofico del problema? Esso indubbiamente esiste, ma non si trova in Popper: ogni tipo di società ha i suoi propri standard di normalità e devianza, e si riserva di tollerare solo quanto non pregiudica la continuità degli equilibri vigenti; tutta l’impresa di Popper in materia di filosofia politica consiste nell’aver spacciato questa caratteristica universale della vita umana associata per un traguardo specifico del mondo liberale e un indice della sua pretesa superiorità metastorica.
Da Locke in avanti, i classici del liberalismo si sono sempre presentati come impeccabili venditori in giacca e cravatta, ci hanno proposto di firmare un contratto molto vantaggioso e pieno zeppo di garanzie, ma in una clausola secondaria e scritta in piccolo (fra le note che nessuno mai legge!) hanno infilato una fregatura che trasforma la sedicente società aperta nel regime più chiuso della storia, più totalitario del Leviatano di Hobbes, del socialismo reale di Stalin e del sistema ideologico monolitico di Kim Jong Il – che se non altro riconoscono francamente il carattere storico e mutevole del proprio paradigma.
La democrazia liberale è dunque un sistema di potere come tutti gli altri, che mira in primo luogo a perpetuarsi nel tempo e a frapporre limiti legali all’azione di chi potrebbe sovvertirla. Da ciò e da null’altro deriva l’intangibilità dei suoi princìpi giuridici che vengono anteposti all’«interesse generale» menzionato nell’articolo 42 della nostra Costituzione, come nel caso del formalismo ideologico di chi giustifica la censura appellandosi alla libertà dei proprietari delle piattaforme private.