Sognando Roma
Avevo quindici anni e fino a quel momento ero vissuto solo per quella giornata. L’avevo programmata da tempo. Il progetto era chiaro e semplice: andare a Roma. Ero cresciuto in un piccolo paese di una piccola provincia. Fino a quel momento la vita era stata serena, tranquilla, monotona e asfissiante. Non c’era persona che non conoscevo e viceversa. Non esisteva uno spazio privato. Riuscivo a ritagliarmelo solo nella mia stanzetta da letto riempita di libri. La mia porta sul mondo era rappresentata dalla rete Internet. Qualsiasi cosa vi leggessi sopra appariva, al me ingenuo di allora, esotico, bello ed eccitante. Così mi sono innamorato di Roma. Della Roma contemporanea e violenta. Quel dialetto, poi, mi sembrava capace di abbattere ogni forma di ipocrisia. Quella città mi affascinava perché era stata teatro dei più seducenti e terrificanti misteri d’Italia. Più leggevo e più la mia mente veniva posseduta da queste storie. Quindi accadeva, nei sogni, di vedere il volto dell’assasino di Pecorelli. Accadeva di vedere Moro assoporare la libertà e stringere fra le sue braccia il nipote Luca. Alle volte succedeva anche di urlare e svagliarmi, come fossi saltato in aria a causa di autobomba. Ed ancora, non era infrequente vedermi in giacca e cravatta davanti a carte che immaginavo valere antamilamiliardi di non so che monete. Ma ciò che più mi inquietava era un sogno ricorrente. L’Alex di quei giorni passeggiava di notte nei giardini di Castel Sant’Angelo in Roma. Incontravo un uomo avvolto nell’ombra. Ogni volta si ripeteva uguale. Mi avvicinavo a questo individuo misterioso. Più mi avvicinavo più questi indietreggiava. Fino a che il suo arretrare veniva arrestato dalle mura del Castello. Mettevo la mia mano destra sul di lui petto, constringendolo in quella posizione. Dopodiché estraevo dalla tasca dei miei pantaloni un piccolo coltello che gli conficcavo nel cuore. Era un’esperienza onirica stimoltane al punto che, per molto tempo, ho creduto di essere pazzo. Come era possibile godere sopprimendo quello che ci viene descritto comer il bene supremo? Eppure questo era e con questa confusione nell’animo decidevo che mi sarei dovuto impegnare per dare un ordine alla mia vita. La risposta a tutto era sempre e solo una: “devo andare a Roma”.
Ad amplificare il tutto sopraggiungeva la tempesta ormonale dovuta all’adolescenza. Nonostante la confusione di cui ho detto, una cosa avevo chiara: non esisterebbe nulla di questo affascinante e avvolgente caos senza le donne. Quello era anche il momento in cui scoprivo che non esistono soltante le mamme e le sorelle. Questo tipo di scoperta è scioccante. E io ero, all’epoca, assai imbranato. Non riuscendo a superare i miei limiti e la mia timidezza mi limitavo a scrutare e a guardare, tenendomi tutto dentro. Per quanto riguarda questo aspetto della mia vita di adolescente, la piccola provincia ha inciso negativamente. Bastava una parola o un gesto per combinare un matrimonio o far scoppiare una guerra. Dunque, volevo sparire ed essere anonimo. Volevo essere libero di fare le mie esperienze. Libero dalle conseguenze che gli adulti pettegoli immaginavano o programmavano per me. Anche le donne, il desiderio di queste, mi portavano a sognare Roma. Perché a Roma, volendo, si può sparire. Si può scegliere. Per andare a Roma servivano soldi. Per fare i soldi c’erano due alternative: rubare o lavorare. Io ho scelto di lavorare. Ho accettato di occuparmi della pulizia dei giardini dei miei compaesani. Se mi fossi impegnato per l’intera estate avrei messo da parte i soldi sufficienti per comprare un biglietto del treno di andato e ritorno e per mangiare. La data l’avevo segnata sul calendario posto sulla scrivania della mia stanzetta da letto: 15/09/2006.
Molto spesso si frappongono ostacoli anche insormontabili fra se stessi e gli obbiettivi. Avevo il vizio di portare con me tutti quei pochi risparmi e mancava una settimana al fatidico giorno della partenza. Era sera, dopo il lavoro mi dirigevo verso casa. Due bulletti, con cui condividevo la frequentazione di quell’arcaica istituzione chiamata scuola, mi hanno placcato senza dirmi nulla. Uno mi ha tenuto fermo mentre l’altro mi rifiliva un destro nello stomaco. Sono caduto a terra stringendo le braccia sull’addome. Ho visto quei due bulletti estrarre i soldi dalla mia tasca e fuggire via insieme al mio grande sogno. Sono rimasto a terra fino a che non si è avvicinato a me il Dott. Lo Bello. Mi ha condotto presso il suo Studio per prestarmi soccorso. Voleva capire che cosa avrei voluto fare con quei soldi. Già allora avevo chiaro un principio: un segreto è tale quando è ignorato dallo stesso custode. Quindi ho lasciato cadere la fastidiosa curiosità dell’adulto pettegolo.
Tornato a casa solo un pensiero tormentava la mia testa: «Devo riprendermi i soldi». Li avevo guadagnati onestamente. Li avevo guadagnati per un sogno. Non era giusto che mi venisse negato. Non c’era tempo per attendere il naturale dispiegarsi della Giustizia Istituzione. In quel momento ho accettato che fosse giusto riprendermi ciò che mi spettava nello stesso modo in cui mi era stato tolto.