Sono razzista, ma…
Sono razzista. Mi tocca ammetterlo di fronte all’umanità intera. Provo godimento interiore nell’assistere a corpi che sprofondano come sassi negli abissi del Mediterraneo. Trovo un diletto tale nella sofferenza di chi non è bianco come me che mi vorrei comprare una barchetta, remare fino al largo di Lampedusa e assistere in diretta a quelle sciagure, vederle proprio a due onde da me.
Sono razzista, ma questo lo dice qualcuno, io non mi ci sento proprio.
In prima elementare, fui così entusiasta nell’apprendere che una bambina macedone sarebbe venuta a far parte della mia classe; biondina e impaurita, non conosceva neanche una parola della nostra lingua: disegniamo allora cose e animali e scriviamo vicino come si chiamano in italiano, così lei imparerà!
Alle medie, accolsi con entusiasmo la richiesta di una professoressa di aiutare il nostro nuovo compagno marocchino, anche lui in difficoltà nell’approcciarsi con il nostro idioma: ero così fiera di poter contribuire alla sua integrazione.
Da adolescente, mi presi una cotta per un ragazzo indiano: mi sarei messa sari e puntino in fronte molto volentieri.
Eppure, tutto ciò e altro ancora viene messo in discussione, addirittura oscurato se si elaborano riflessioni sull’immigrazione che si discostano dal pensiero globalista per cui sono ammesse solo cartine geografiche fisiche e i confini sono brutte cose: basta poco per essere dipinti come mostri.
È vero, esistono coloro che si oppongono ai fenomeni migratori perché intimoriti dal diverso, schifati dal dover condividere la stessa città con delle persone dalla pelle nera, atterriti nel constatare che si possono professare anche religioni diverse rispetto alla loro: questi meritano a tutti gli effetti il titolo di razzisti, perché si sono impegnati nell’essere ottusi e per questo si sono conquistati un posto nella suddetta categoria.
Tuttavia, troviamo una fetta (si spera, la più consistente) di critici sul tema immigrazione che sono ben lontani dal considerare inferiore un soggetto in relazione alla sua etnia. Ebbene si, è possibile essere contrari all’accoglienza incondizionata pur senza provare odio.
Questo dipende da come si affronta la questione: come una problematica geopolitica a cui approcciarsi razionalmente, dati alla mano, o come una rissa da bar tra ebbri.
Chi si accosta all’argomento seguendo la prima opzione ha molto a cuore, in primis, l’aspetto umanitario. Sa bene che accondiscendere all’arrivo di migranti fuori controllo, affermare che lo stato attuale delle cose non è da riformare significa ammiccare alle organizzazioni criminali che si arricchiscono sulla vita (e sulla morte) di ormai milioni di persone che consegnano loro tutti i risparmi per tentare in Europa una fortuna che troppo spesso si rivelerà avversa e meschina. È consapevole che vuol dire anche accettare che strutture di accoglienza di vario genere si intaschino fior di quattrini per gestire un numero abnorme di individui che per vedersi accordata o respinta la richiesta di asilo politico sono costrette a restare in un limbo per anni, impossibilitate a disporre liberamente della loro esistenza.
Ha bene in mente che tifare per l’immigrazione senza limiti significa fornire alle mafie o a chi per loro manodopera da sfruttare a piacimento in campagna, a spaccarsi la schiena per due spiccioli e un letto tra il fango: così, le condizioni lavorative e retributive peggiorano inesorabilmente per tutti, è una concorrenza al ribasso senza pietà.
È difficile comprendere come chi non si pone alcun problema a riguardo possa sorvolare su tutti questi aspetti tanto penosi, senza interrogarsi mai. Spesso, un soggetto che è di questo avviso vive nella totale buona fede, pensando che lasciare migrare nel nostro Paese sia un atto di generosità e solidarietà. Purtroppo, invece, questo slancio d’amore sovente risulta ritorcersi contro chi giunge in Italia.
Comunque,per rassicurare ogni attivista no border è bene far presente che chi approda nel nostro territorio e riesce a ottenere un impiego non sarà mai rimpatriato: l’unico punto su cui focalizzarsi, in questo caso, è lo sfruttamento, fenomeno che si ripercuote su tutta la popolazione, da combattere, ad esempio, introducendo il salario minimo garantito.
Il problema più consistente si pone per tutti coloro che entrano qui e permangono in stato di clandestinità: la clandestinità comporta trovarsi allo sbando, perversare in situazioni tremendamente disagiate, dunque essere facile preda di istinti illegali per ovviare alla propria sopravvivenza. È questo che si desidera?
Classe 1995, laureata in giurisprudenza.
Il diritto e la politica sono il mio pane quotidiano, la mia croce e delizia.
Vi rassicuro: le frasi fatte solo nelle informazioni biografiche.