Il fascino di Spoon River fra Masters e De Andrè

Un mese fa ero a farmi una giornata di mare a Rosolina, in provincia di Rovigo. Tappa obbligata le rare volte che mi trovo da quelle parti è un negozio di libri usati: fra tante pubblicazioni inutili (molte delle quali acquistate solo dall’autore e dai parenti più prossimi) e tanti libri mainstream che si possono acquistare ovunque, si trova sempre qualche gioiellino che vale la pena di comprare. Anche questa volta sono riuscito a trovare qualcosa di interessante: la quarta edizione, datata 1953, dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (trad. Fernanda Pivano, Einaudi). Prima di parlarvi di questa raccolta di poesie, a chi fosse interessato tra le tante sul mercato mi sentirei di consigliare l’edizione Einaudi (ET poesia, 12 euro) perché tradotta dalla Pivano.

Edgar Lee Masters
Edgar Lee Masters

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L’Antologia di Spoon River, scritta dall’avvocato Edgar Lee Masters nei primi decenni del secolo scorso e pubblicata nel 1915, è diventata famosa nel nostro paese dopo che Fabrizio De André nel 1971 ne trasse l’album «Non al denaro, non all’amore né al cielo» (con gli arrangiamenti del futuro premio Oscar Nicola Piovani). Le poesie sono confessioni, invettive, malinconici ricordi sussurrati, urlati o proclamati dagli «ospiti» dell’immaginario cimitero di Spoon River, Usa. Cosa trarre da queste poesie? Che a muovere il mondo sono sempre due cose: l’amore (rivolto a qualcuno o a qualcosa) e l’invidia e che rinchiusi in una bara sotto un metro di terra siamo tutti uguali e, per una volta, non avendo nulla da nascondere o da dimostrare siamo davvero noi stessi. È questa la grandezza dell’opera di copertina_nonaldenaroLee Masters (a cui segue Il nuovo Spoon River, di minore importanza e qualità artistica): con una semplicità disarmante, «E se la gente sa che sai suonare, suonare ti tocca, per tutta la vita», l’autore è riuscito a spiegare la commedia umana in tutte le sue infinite sfaccettature. «Finii con le stesse terre, finii con un violino spaccato – e un ridere rauco e ricordi, e nemmeno un rimpianto», racconta il violinista Jones che De Andrè, per ragioni di metrica, 60 anni dopo fece diventare un flautista.
«Immaginate di essere alto cinque piedi e due pollici, e di aver cominciato come garzone droghiere, finché, studiando legge di notte, siete riuscito a diventar procuratore», racconta il nano Selah Lively, poi divenuto un Giudice quando a farlo parlare è stato Fabrizio De Andrè: «la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo fino a dire che un nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo». A proposito di questo geniale ultimo verso, di cui non si trova traccia nell’originale, Fernanda Pivano racconta che, quando De André eseguì la canzone per ottenere il suo ok in quanto traduttrice dell’opera, cantò «Perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco dell’ehm ehm», borbottando la parola «culo» per paura di scandalizzarla. Evidentemente non la conosceva ancora così bene.
L’
Antologia rimane una raccolta di incredibile attualità nonostante i 100 anni trascorsi dalla sua pubblicazione, forse perché noi uomini non siamo cambiati per niente.