La cultura è di destra o di sinistra? Due voci a confronto
Alessandro Tortato nasce come musicista: diplomatosi in pianoforte, composizione e direzione d’orchestra a Venezia, ha insegnato in diversi conservatori italiani e ha diretto numerose orchestre sia nazionali che internazionali. Più di recente, si è dedicato a studi storici e politici, ha pubblicato saggi di carattere storico e scrive per il Corriere.
Stefano Zecchi, filosofo, scrittore e giornalista, è presidente del corso di laurea in Filosofia dell’Università degli Studi di Milano; originario di Venezia, ha insegnato in diverse città, tra cui Padova, dove negli anni settanta ha ricoperto la cattedra di filosofia teoretica. Ha studiato Husserl, Bloch, Goethe, si interessa di estetica e ha concepito un concetto di bellezza in radicale opposizione al nichilismo che caratterizza la nostra epoca.
A entrambi abbiamo chiesto di esprimere il loro parere sulla questione: «La cultura è di destra o di sinistra?». Domanda ambigua, che necessiterebbe di chiarimenti e approfondimenti: cosa si intende per cultura? Esistono ancora una destra e una sinistra?
Secondo Tortato, «nella contemporaneità esiste certamente una cultura di destra e una cultura di sinistra, ciascuna con i suoi valori, ciascuna con i suoi miti fondativi, ciascuna con il suo Pantheon». Tuttavia, in Italia la questione è complessa per due ragioni storiche: «In primis, nel nostro paese la destra è sempre stata identificata con il fascismo»; inoltre, «la conventio ad excludendum nei confronti del Partito Comunista, posta in atto dalla borghesia nel contesto della guerra fredda, attraverso il voto di massa alla Democrazia Cristiana, non comprendeva certo la politica culturale, che anzi veniva in sostanza consegnata alle sinistre. Da tutto ciò deriva, ma questo è un mio parere, uno dei grandi mali della recente storia italiana: l’assenza di una vera cultura liberale, laica, meritocratica, ecc. e la conseguente marginalità di una classe politica che a questa cultura faccia riferimento».
Stefano Zecchi ritiene invece che la cultura in sé sia priva di orientamento politico; sarebbe piuttosto la politica culturale a delineare il rapporto tra destra e sinistra. «Esistono sensibilità degli artisti che possono trovarsi nelle loro opere, ma questa divisione ha una sua specificità non tanto nella cultura, bensì nella gestione politica.»
Non la pensavano nello stesso modo gli storici e saggisti Furio Jesi e Adriano Romualdi, che riconoscevano alla cultura una posizione politica. Il primo, infatti, nel suo saggio Cultura di destra, ha individuato e analizzato questo genere di cultura, che avrebbe influenzato anche il pensiero di coloro che di destra non sono: «Questo deriva dal fatto che la maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole affatto essere di destra, è residuo culturale di destra. La sopravvivenza indisturbata di queste incrostazioni è per lo meno sospetta, dal momento che una cultura e un linguaggio significano anche un’ideologia e un assetto ben definito di rapporti sociali».
Romualdi, da parte sua, ha scritto un saggio dal titolo piuttosto eloquente, Perché non esiste una cultura di destra, in cui afferma che, benché le persone colte possano essere tanto di destra quanto di sinistra, a destra non è possibile individuare una vera e propria cultura, dal momento che «manca una vera idea della destra, una visione del mondo qualitativa, aristocratica, agonistica, antidemocratica; una visione coerente al di sopra di certi interessi, di certe nostalgie e di certe oleografie politiche».
Ma Zecchi non condivide questa idea: non è la cultura di sinistra a prevalere, ma piuttosto una politica culturale di sinistra, che tende a emarginare ciò che non è coerente col suo modo di pensare. «Non si possono catalogare Proust, Mann come di sinistra: questa è stata una presa di posizione politica più che culturale.» In ogni caso, Zecchi riconosce alla politica di sinistra di aver saputo gestire bene i propri intellettuali, cosa di cui la destra invece non si è mai preoccupata.