Storia delle bombe di mafia: Capaci e via D’Amelio

di Team Turing: Tito Borsa e Simone Romanato
Supervisione di Tito Borsa

Seconda puntata

 

Come programmato durante la riunione di cui parla Giuffrè, la prima vittima della nuova strategia di Cosa Nostra è Salvo Lima, parlamentare siciliano della Dc, che viene ucciso il 12 marzo 1992. L’omicidio viene rivendicato dalla sigla «Falange Armata», sedicente gruppo terroristico che nei primi anni Novanta si è intestato vari atti criminali, tra cui la strage di Capaci dove moriranno Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. A parte una lettera inviata a Totò Riina nel carcere di Opera nel 2014 («Chiudi quella maledetta bocca. Ricorda che i tuoi familiari sono liberi»), la sigla risulta inattiva dal 1994. 

Il pentito Antonino Giuffrè, per quanto riguarda Lima, racconta: «In modo particolare c’era già una parte politica legata all’onorevole Lima che già da diverso tempo si era defilata, e in modo particolare lui, tant’è vero che poi è stato ucciso; assieme, diciamo, ad altre parti, ad altri personaggi politici, che piano piano hanno fatto un passo indietro, ed in modo particolare mi sembra che ho fatto un certo collegamento fra l’87 e quella parte in cui… di partiti che noi appositamente in data ’87 in queste elezioni avevamo appoggiato, con riferimento al Partito Socialista Italiano».

Il 23 maggio 1992 c’è la strage di Capaci. Una bomba sotto l’autostrada A29 uccide Giovanni Falcone, il magistrato simbolo del maxi-processo e della svolta antimafia del governo Andreotti. Riina segue la logica del si vis pacem, para bellum, se vuoi la pace, prepara la guerra. A quel punto, secondo quanto riportato nella sentenza del processo Trattativa, si muovono i vertici del R.O.S., il Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri, Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, che vanno a trattare con Vito Ciancimino, affinché faccia da tramite con Riina. 

Il governo presieduto da Giuliano Amato viene informato di questo, e viene a saperlo anche Paolo Borsellino. Il magistrato cerca di indagare su ciò che sta accadendo attorno a lui ma non riesce ad arrivare a delle conclusioni. Il 19 luglio 1992 viene ucciso anche lui, con un’autobomba in via D’Amelio, a Palermo, che porta alla morte anche di cinque dei sei uomini della sua scorta. 

La sentenza sulla Trattativa spiega molto chiaramente che il motivo di questo attentato era «impedire che il dott. Paolo Borsellino denunciasse pubblicamente la “trattativa” che con la condotta di minaccia si intendeva instaurare». Il suo assassinio, forse già programmato da tempo, forse no, subisce un’accelerazione altrimenti inspiegabile. 

Negli anni sta emergendo anche il ruolo dei servizi segreti nella strage di via D’Amelio. A metà dicembre 2018 la Commissione antimafia regionale siciliana, presieduta da Claudio Fava, in una relazione ha messo nero su bianco che «È certo il ruolo che il Sisde (l’allora servizio segreto civile, ndr) ebbe nell’immediata manomissione del luogo dell’esplosione e nell’altrettanto immediata incursione nelle indagini della Procura di Caltanissetta».

Durante il processo Borsellino quater, Giuffrè spiega: «La forza della mafia derivava dai suoi rapporti, imperniati su interessi comuni, con ambienti della politica, dell’economia, delle professioni, della magistratura e dei servizi deviati». 

Il sovrintendente di Polizia Francesco Paolo Maggi, subito presente sul luogo della strage, racconta a processo: «Uscii da ’sta nebbia che… e subito vedevo che arrivavano tutti ’sti… tutti chissi giacca e cravatta, tutti cu’ ’u stesso abito, una cosa meravigliosa». Era «gente di Roma», dei servizi, «senza una goccia di sudore» nonostante il caos e la concitazione nel caldo di luglio. Maggi a quel punto si chiede: «Ma questi come hanno fatto a sapere già?».

La sentenza di primo grado del Borsellino quater mette il ruolo dei servizi nero su bianco: «Già nell’immediatezza della strage, attorno all’automobile blindata del magistrato ucciso, vi erano una pluralità di persone in cerca della sua borsa e di quello che la stessa conteneva, ivi compresi alcuni appartenenti ai Servizi Segreti», come riferito da Maggi e dal suo vice Giuseppe Garofalo.

Questa relazione, che non ha conseguenze penali ma è comunque fondamentale perché frutto di un lavoro istituzionale non da poco, mostra che 

«il depistaggio sulla strage di via D’Amelio comincia pochi istanti dopo l’esplosione in cui perdono la vita il dottor Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. Quella domenica 19 luglio – come ha ricostruito il dott. Gozzo nel corso della sua audizione – si succedono almeno tre diversi episodi “di un’azione coordinata”, destinati a manipolare la scena della strage, a trafugare documenti, a sottrarre prove. (…) Nei minuti successivi all’esplosione in quel tratto di strada si raccoglie una moltitudine di persone appartenenti alle forze dell’ordine, colleghi di Paolo Borsellino, giornalisti, vigili del fuoco e – con modalità del tutto anomale – personale dei servizi segreti». 

La sentenza di primo grado del processo Borsellino quater, risalente al 2017, citando le parole dei pm Sergio Lari, Domenico Gozzo, Stefano Luciani e Gabriele Paci, spiega che «appare incontestabile “come la strage di Via D’Amelio, inserita nella complessiva strategia stragista di cui si è ampiamente riferito, oltre a soddisfare un viscerale istinto vendicativo, si proponesse il fine di ‘spargere terrore’ allo scopo di ‘destare panico nella popolazione’, di creare una situazione di diffuso allarme che piegasse la resistenza delle Istituzioni, così costringendo gli organi dello Stato a sedere da ‘vinti’ al tavolo della ‘trattativa’ per accettare le condizioni che il Riina e i suoi sodali intendevano imporre”». 

Appare quindi evidente il nesso tra l’assassinio di Paolo Borsellino – nonché di 5 dei 6 membri della sua scorta – e la Trattativa che, come vedremo occupandocene più nel dettaglio in un paragrafo apposito, era in essere già da qualche mese. 

Paolo Borsellino sapeva che era iniziata la Trattativa tra Stato e Cosa Nostra e questo sicuramente ha influito nell’accelerazione dell’organizzazione del suo assassinio.
Il magistrato era senz’altro in prima linea nella lotta alla mafia, però come abbiamo detto non avrebbe ereditato le inchieste su cui stava lavorando Giovanni Falcone, e allora perché – se non per coprire qualcosa di indicibile come la Trattativa – a Cosa Nostra convenne creare un nuovo martire?

Continua…