Storia delle bombe di mafia: Cosa Nostra nel Continente
di Team Turing: Tito Borsa e Simone Romanato
Supervisione di Tito Borsa
Terza puntata
La sentenza sulla Trattativa ritiene che la bomba di via Fauro a Roma, risalente al 14 maggio 1993 e avente come obiettivo Maurizio Costanzo che – arrivando su un’auto diversa da quella prevista dagli attentatori – ne esce miracolosamente illeso insieme a Maria De Filippi, «segna l’inizio di una nuova fase della strategia terroristica della mafia». I dieci mesi che separano via D’Amelio da via Fauro, spiegano i giudici, sono «costellati da avvenimenti importanti e da numerosi segnali premonitori»: l’omicidio a Palermo di Ignazio Salvo (legato a Salvo Lima), la D.I.A. che propone l’applicazione di misure cautelari nei confronti di 26 sospetti mafiosi in relazione a un «pericoloso riarmo di Cosa Nostra e l’inizio di una serie di attentati contro aeromobili e strutture aeroportuali». Gli inquirenti, scrivono i giudici, erano convinti che «la mafia si stesse preparando a porre in essere azioni criminali di devastante portata».
Sono mesi, spiegano i giudici, di «clima torbido», in cui trovano terreno fertile campagne di disinformazione. Una delle numerose false notizie pubblicate riguardava un finanziere svizzero, responsabile del settore crediti della Rothschild Bank di Zurigo, che sarebbe stato al corrente di «numerosi segreti del mondo finanziario e politico italiano (dal caso Calvi alla P2)» e che per questo sarebbe stato tenuto dalla D.I.A. in località segreta e all’insaputa dell’Autorità Giudiziaria. Notizia falsa che però è sintomo dell’atmosfera che si respirava nel 1993.
Via Fauro è un momento di svolta per Cosa Nostra, che per la prima volta nei suoi quasi due secoli di storia esce dalla Sicilia. Ed è anche l’inizio della stagione delle bombe. Tra la fine di maggio e la fine di luglio 1993 la mafia organizza gli attentati in via dei Georgofili a Firenze (27 maggio, 5 vittime), in via Palestro a Milano (27 luglio, 5 vittime) e alle basiliche di San Giovanni in Laterano e san Giorgio al Velabro a Roma (28 luglio). La sentenza sulla Trattativa spiega che:
«Dopo via Fauro gli attentati hanno assunto le caratteristiche di avvertimenti e di intimidazioni. Le bombe, seminando vittime spesso impreviste, lanciano un segnale di grande capacità distruttiva e di efficienza organizzativa, i cui effetti appaiono volutamente circoscritti. È come se gli ispiratori di tale strategia avessero ritenuto di poter raggiungere i propri scopi limitandosi, in un primo momento, a fare sfoggio della propria forza sottintendendo, al contempo, la minaccia di azioni più devastanti e sanguinose».
Il 27 maggio 1993, all’1.05 del mattino, un’autobomba esplode a Firenze in via dei Georgofili 5. Già il giorno dopo, pur non escludendo altre piste, il procuratore distrettuale antimafia di Firenze, Pier Luigi Vigna, spiega a Franca Selvatici di Repubblica che «le stragi di Capaci e di via D’Amelio dimostrano che la mafia ha adottato la strategia del terrore» che «può anche non porsi un obiettivo mirato», come invece era successo con Falcone e Borsellino. Le vittime, come dicevamo, sono 5. La più piccola una bambina di 50 giorni di vita, Caterina Nencioni.
Gaspare Spatuzza, u Tignusu (il Calvo), condannato tra le altre cose per l’attentato di Firenze, nel 2008 si pente e racconta che a pianificare la strage c’erano anche Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro. Il 20 maggio 2016, da alcuni stralci della sentenza di appello che condanna il boss Francesco Tagliavia all’ergastolo per via dei Georgofili, si evince che «lo Stato avviò una trattativa con Cosa Nostra» e la Trattativa «indubbiamente ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des». L’iniziativa «fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia».
Esattamente due mesi dopo via dei Georgofili, la sera del 27 luglio 1993 esplode un’altra autobomba, questa volta a Milano, in via Palestro, presso la Galleria d’Arte Moderna. Muoiono tre vigili del fuoco, un agente di Polizia Municipale e un immigrato che dormiva su una panchina. Nel 1998 arriva la sentenza di primo grado che condanna Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno u Picciriddu, Antonio Scarano, Antonino Mangano e Salvatore Grigoli per la strage di via Palestro, ma i giudici riconoscono che «la mancata individuazione della base delle operazioni a Milano e dei soggetti che in questa città ebbero, sicuramente, a dare sostegno logistico e contributo manuale alla strage non ha consentito di penetrare in quella realtà che, come dimostrato dall’investigazione condotta nelle altre vicende all’esame di questa Corte (le altre bombe del 1993, ndr), si sono rivelate più promettenti sotto il profilo della verifica “esterna”».
Sempre la sera del 27 luglio 1993, mezz’ora dopo la strage di via Palestro, esplodono due autobombe a Roma. Una davanti alla basilica di San Giorgio al Velabro e una davanti a quella di San Giovanni in Laterano. Il risultato è nessun morto, 22 feriti e gravi danni alle due chiese. Da ricordare che i presidenti di Camera e Senato al tempo erano Giorgio Napolitano e Giovanni Spadolini. Guarda caso avevano gli stessi nomi di battesimo dei santi a cui sono intitolate le due chiese colpite dalle bombe. Un avvertimento?
Il 28 luglio il braccio destro di Giuseppe Graviano, Gaspare Spatuzza, manda a Il Messaggero e al Corriere della Sera due lettere anonime che, firmate dalla fantomatica sigla «Falange Armata», rivendicavano gli attentati e minacciavano nuovi morti e nuove esplosioni.
La stagione delle bombe di mafia nel Continente inizia il 14 maggio e finisce il 27 luglio 1993, 74 giorni in cui sono esplose 5 bombe e sono morte dieci persone. Poi, come vedremo, Cosa Nostra torna in silenzio.
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