Storia delle bombe di mafia: la Trattativa
di Team Turing: Tito Borsa e Simone Romanato
Supervisione di Tito Borsa
Quinta puntata
Il 20 aprile 2018 la seconda sezione della Corte di Assise di Palermo ha emesso la sentenza di primo grado del Processo Trattativa, che ha condannato (tra gli altri) a pene tra gli 8 e i 28 anni Marcello Dell’Utri, i vertici del R.O.S. Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno e i mafiosi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. In questi mesi è in corso il processo d’appello.
Una sentenza, seppur non ancora definitiva, storica, che conclude il primo grado del processo che ha messo alla sbarra la Prima Repubblica e i protagonisti dell’inizio della Seconda. Il fatto che la Trattativa ci sia effettivamente stata viene confermato dalla Corte d’Assise di Firenze, nella sentenza con cui il boss Francesco Tagliavia viene condannato all’ergastolo, il 5 ottobre 2011: «Indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini della mafia».
Può essere interessante una breve (e incompleta) antologia di quanto è stato detto sulla Trattativa e sul processo in questi anni, specialmente in area centrodestra:
«La Trattativa Stato-mafia è una minchiata. Non c’è niente di niente. E invece gli Ingroia ci propinano sciocchezze che i loro cani da guardia, come Travaglio, volgarizzano. Io però non mi faccio mettere l’anello al naso» (Giuliano Ferrara, Il Giornale, 29 agosto 2012)
«La Trattativa Stato-mafia è una bufala, non sta in piedi, è un’inchiesta da portineria politica… non esiste il reato, non esistono le imputazioni, non esistono gli imputati… non c’è il movente, non ci sono testimoni, non ha nessuna possibilità di arrivare a condanna, se pure si arriverà al dibattimento» (Andrea Marcenaro, Il Foglio, 13 settembre 2012)
«Il fantaromanzo della Trattativa. La trama non sta in piedi… Non dovrebbe valere neppure la carta su cui è scritta» (Il Foglio, 7 novembre 2012)
«A Palermo parte la Norimberga de noantri» (Giorgio Mulé, Panorama, 29 maggio 2013)
«Il processo sulla Trattativa è una boiata pazzesca. Manca il movente, mancano le prove e non è chiara nemmeno la formulazione dei reati» (Giovanni Fiandaca, ordinario di Diritto penale all’Università di Palermo, Il Foglio, 1 giugno 2013)
«Il processo sulla “Trattativa” tra Stato e Cosa Nostra? Un’allucinazione dei carrieristi dell’antimafia» (Pino Arlacchi, Panorama, 26 febbraio 2014)
Alla fine la sentenza di primo grado è arrivata. È indubbiamente difficile riassumere più di 5000 pagine di motivazioni, però qualcosa si può e si deve dire.
Si può dire che la Trattativa ha ufficialmente inizio tra il 28 e il 29 maggio 1992, su un aereo da Roma a Palermo, quando il capitano del R.O.S. Giuseppe De Donno incontra Massimo Ciancimino, figlio di Vito, e gli chiede di poter incontrare il padre.
Dieci giorni dopo, l’8 giugno, nasce (ancora virtualmente) Forza Italia. Marcello Dell’Utri, presidente di Publitalia, incontra Ezio Cartotto, consulente dell’azienda vicino ad ambienti democristiani. Con la vecchia politica che va a pezzi sotto i colpi di Tangentopoli, Cartotto viene incaricato di studiare un ingresso della Fininvest in politica.
La sentenza della Corte d’Assise di Palermo, come ha spiegato Marco Lillo nella sua introduzione al volume scritto a quattro mani con Marco Travaglio (Padrini fondatori, PaperFirst, 2018), è un punto di partenza per ricostruire i rapporti tra Cosa Nostra e istituzioni nei primi anni Novanta. Sia perché ci sono altri procedimenti molto interessanti che potrebbero aggiungere qualche tassello a un mosaico ancora troppo incompleto, sia perché ad aprile scorso è iniziato il processo d’appello che potrebbe ribaltare le conclusioni della sentenza di primo grado.
Il 20 aprile 2018 è stato comunque un giorno fondamentale: la Corte d’Assise di Palermo ha messo nero su bianco Cosa Nostra e istituzioni si sono messe d’accordo per l’interruzione delle stragi in cambio di alcuni favori legislativi ma non solo da parte della politica e delle forze dell’ordine. Lo Stato era già pronto a trattare dopo la morte di Falcone, ma alla mafia questo non bastava. Riina voleva ottenere di più. Eliminato Borsellino, forse perché era venuto a sapere dell’accordo, ci sono state le bombe del 1993 e il fallito attentato all’Olimpico.
Spiegano i giudici della Corte d’Assise:
«Occorre premettere in linea di generalità per tutti gli imputati condannati per il reato di cui al capo a) della rubrica (violenza o minaccia a corpo dello Stato, ndr) che questo appare di estrema gravità, innanzitutto, sia per il tempo in cui è stato commesso, all’indomani di una delle più gravi stragi della storia della Repubblica, qual è stata quella di Capaci, e mentre venivano reiterate non meno gravi stragi (da quella di via D’Amelio sino a quelle del 1993, senza dimenticare il tentativo dello stadio Olimpico di Roma che, se fosse riuscito, avrebbe verosimilmente messo definitivamente in ginocchio le Istituzioni), sia per le complessive modalità dell’azione tipiche del ricatto mafioso elevato qui, però, all’ennesima potenza.
Ma il reato è connotato da estrema gravità anche per il danno e il pericolo cagionati alle Istituzioni sia per le materiali conseguenze che ne sono derivate (non solo le stragi, ma anche gli innumerevoli attentati omicidiari che hanno caratterizzato il biennio 1992-1994 tutti collegati, a vario titolo, alla strategia mafiosa che, parallelamente alla minaccia, mirava ad ottenere il cedimento dello Stato), sia per la compromissione del funzionamento delle più alte Istituzioni preposte alla vita democratica del Paese fortemente influenzate dall’incombente minaccia mafiosa.
La gravità dei fatti ricondotti alla fattispecie criminosa per la quale va riconosciuta la responsabilità penale degli imputati condannati non è certo elisa dalla ripetuta affermazione soprattutto dei difensori dei Carabinieri secondo cui l’iniziativa di questi ultimi avrebbe anzi scongiurato più gravi lutti allo Stato e meriterebbe, quindi, agli stessi il riconoscimento di “salvatori della Patria”».
E ancora:
«È ferma convinzione della Corte che senza l’improvvida iniziativa dei Carabinieri e cioè senza l’apertura al dialogo sollecitata ai vertici mafiosi che ha dato luogo alla minaccia al Governo sotto forma di condizioni per cessare la contrapposizione frontale con lo Stato, la spinta stragista meramente e chiaramente di carattere vendicativo riconducibile alla volontà prevaricatrice di Riina, si sarebbe inevitabilmente esaurita con l’arresto di quest’ultimo nel gennaio 1993.
Si vuole dire, in altre parole, che in assenza del precedente segnale di cedimento dello Stato percepito dai mafiosi (percezione determinata unicamente dall’azione dei Carabinieri che dicevano – o facevano credere – di essersi mossi a nome del Governo), non avrebbe trovato terreno fertile la speranza di potere ottenere benefici dall’azione stragista che sino quel momento aveva prodotto soltanto l’inasprimento del regime carcerario e, appunto, l’arresto di Salvatore Riina.
E, invece, al contrario, è stata proprio la constatazione che le stragi del 1992 avevano smosso qualcosa nell’apparentemente granitica fermezza che da qualche tempo, grazie all’impulso incessante di Giovanni Falcone, il Governo della Repubblica aveva manifestato e stava attuando, che ha reso possibile ipotizzare che qualche altro “colpo” (cioè qualche altra strage, quali quelle che, poi, furono effettivamente realizzate nel corso del 1993) avrebbe potuto fare crollare la resistenza statuale».
Parole pesantissime, quelle della Corte d’Assise di Palermo, che alla fine condanna – per diversi reati – Leoluca Bagarella a 28 anni di carcere; Antonino Cinà, Mario Mori e Antonio Subranni a 12 anni; Giuseppe De Donno a 8 anni; Marcello Dell’Utri a 12 anni; Massimo Ciancimino a 8 anni.
Come spiega la sentenza, il capitano dei Carabinieri Giuseppe De Donno contatta Vito Ciancimino attraverso il figlio Massimo e in questo modo, tramite il medico Antonino Cinà, si riesce a stabilire un contatto con Totò Riina. Il maresciallo Roberto Tempesta, invece, riesce a contattare Antonino Gioè per recuperare delle opere d’arte trafugate e riferisce al colonnello Mori.
Tra il 25 e il 28 giugno Paolo Borsellino incontra prima Mori e De Donno, poi Liliana Ferraro, vicedirettore agli Affari Penali al ministero della Giustizia, la quale gli racconta dei contatti fra Mori e Ciancimino. Borsellino spiega alla Ferraro di saperlo già. Nel frattempo si insedia il governo Amato, con il democristiano Nicola Mancino come ministro dell’Interno.
Proprio in quei giorni, Totò Riina racconta a Giovanni Brusca di aver scritto un «papello» di richieste per lo Stato, in cambio della fine delle stragi. Brusca sta preparando un attentato contro Mannino, ma viene fermato da Salvatore Biondino: ci sono altre priorità. Nello stesso periodo Riina inizia a pianificare l’omicidio di Borsellino, che il 15 luglio confida alla moglie Agnese che il generale Subranni aveva contatti con la mafia. È consapevole che, dopo Falcone, ben presto sarà ucciso anche lui. Infatti il 19 luglio muore nell’attentato di via D’Amelio, a Palermo.
Sull’omicidio di Borsellino, rivendicato con la sigla «Falange Armata», il pm del processo sulla trattativa Antonino Di Matteo spiega che fu eseguito per «proteggere la trattativa dal pericolo che il dott. Borsellino, venutone a conoscenza, ne rivelasse e denunciasse pubblicamente l’esistenza, in tal modo pregiudicandone irreversibilmente l’esito auspicato». In via D’Amelio non viene trovata l’agenda rossa, compagna inseparabile di Borsellino, nella quale il magistrato annotava tutti i dettagli delle inchieste che stava seguendo.
Il giorno dopo, 20 luglio 1992, la Procura di Palermo deposita l’istanza di archiviazione dell’indagine «Mafia e appalti», a cui avevano lavorato sia Falcone che Borsellino. L’istanza viene accettata il 14 agosto successivo.
Nel frattempo la mafia non è contenta: la morte del magistrato ha portato lo Stato ad armarsi contro Cosa Nostra. Viene convertito in legge il decreto «Scotti-Martelli», che porta 100 mafiosi nelle carceri di Pianosa e dell’Asinara, con il 41bis. Mentre il 10 agosto vengono inviati in Sicilia 7000 uomini dell’esercito per contrastare la mafia.
Nel settembre successivo Riina spiega a Brusca che la Trattativa si è interrotta, e che quindi bisogna agire nuovamente contro lo Stato. Viene così preparato l’attentato all’allora giudice Pietro Grasso, omicidio poi saltato per alcuni problemi tecnici.
La situazione cambia radicalmente quando, il 15 gennaio 1993, viene arrestato Totò Riina, dopo 23 anni di latitanza. Il gotha di Cosa Nostra si divide fra chi vuole continuare la stagione stragista (Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Filippo e Giuseppe Graviano) e chi invece intende cambiare strategia (Michelangelo La Barbera, Raffaele Ganci, Salvatore Cancemi, Matteo Motisi, Benedetto Spera, Nino Giuffrè e Pietro Aglieri). A cercare di conciliare le due istanze è Bernardo Provenzano che riesce a giungere a un accordo: si continua con gli attentati, ma solo fuori dalla Sicilia, in «continente».
Dopo alcune lettere e telefonate minatorie dirette a diversi soggetti (fra cui l’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro), il 14 maggio 1993 (come abbiamo visto) il giornalista Maurizio Costanzo per puro caso non viene ucciso da un’autobomba. Anche qui l’attentato viene rivendicato da «Falange Armata».
Poi arrivano gli attentati a Firenze e a Roma. Tra marzo e maggio 1993 viene tolto il 41bis a 121 detenuti.
Prima di proseguire, riportiamo alcune reazioni a caldo al pronunciamento della sentenza di primo grado:
«Usare una sentenza di primo grado portata avanti da un magistrato amico per provare a fare scouting nello schieramento avversario e cercare di fare un governo all’insegna del giustizialismo chiodato. L’orrore quotidiano del governo delle manette» (Claudio Cerasa, direttore del Foglio, Twitter, 20 aprile 2018)
«La sentenza di primo grado sulla Trattativa Stato-mafia ha solo un obiettivo: porre una pietra tombale sulla trattativa fra centrodestra e M5S. Per ironia della storia, l’obiettivo è convergente con quello di Berlusconi». (Paolo Becchi, Twitter, 21 aprile 2018)
«È una sentenza che lascia perplessi. Dico meglio: lascia un po’ sbigottiti. Per cinque ragioni. La prima è che non ci sono prove contro gli imputati. Soprattutto contro gli imputati di maggiore valore mediatico: il generale Mori (e i suoi collaboratori) e l’ex senatore Dell’Utri». (Piero Sansonetti, il Dubbio, 21 aprile 2018)
«Le condanne di Palermo, senza prove, sono un insulto allo Stato di diritto». (Vittorio Sgarbi, 20 aprile 2018)
«Il governo Berlusconi del 1994 è stato connotato da un netto contrasto del fenomeno mafioso». (Nicolò Ghedini, 20 aprile 2018)
«No all’accostamento di Berlusconi alla vicenda: quereliamo il pm Di Matteo». (Forza Italia, 20 aprile 2018)
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