Tap: tra le polemiche il gasdotto arriva in Puglia
È di questi giorni la notizia del rimpianto di 30 ulivi nel sito dove sorgerà la Trans Adriatic Pipeline, anche detta Tap, un nuovo gasdotto che dalla frontiera greco-turca attraverserà Grecia e Albania per approdare in Italia, nella provincia di Lecce. Meno recenti sono invece le proteste degli attivisti che si oppongono a questa opera, che da settimane presidiano il cantiere. Vediamo perché, capendo anzitutto di cosa di tratta.
Dopo aver svolto quelli che sono definiti studi di fattibilità tra il 2003 e il 2006, nel 2013 il consorzio Shah Deniz II seleziona il progetto TAP invece che il cosiddetto «Nabucco West», impegnandosi a investire circa 20 miliardi di euro. Tale consorzio è proprietario di un giacimento di gas nel sud del Mar Caspio. I suoi azionisti di maggioranza sono, tra gli altri, la Bp (British Petroleum, 28,8%), la Tpao (Turchia, 19%), la Lukoil (Russia, 10%). L’accordo iniziale viene stipulato a Bakux, in Azerbaijan, tra Enel, Hera, Shell e Axpo (multinazionale svizzera), per un totale di 130 miliardi di euro. Il progetto riguarda la costruzione di un corridoio lungo 871 km per il trasporto di gas, che partirebbe dalla Grecia e, passando per l’Albania, vedrebbe il suo arrivo in Italia, nella cittadina di Melendugno.
Nella dialettica dell’azienda promotrice, la Tap sarebbe un’opportunità per l’Europa di rendersi indipendente dal gas russo, oltre che una fonte di occupazione lavorativa per la popolazione locale pugliese (circa 50 posti di lavoro). Si stima un trasporto di 10 miliardi di metri cubi di gas, corrispondente al fabbisogno di 7 milioni di famiglie, con la prospettiva di arrivare a 20 milioni. Tutto questo, senza alcun tipo di impatto ambientale o ricadute negative sul turismo della regione. Sarà necessario costruire due impianti di trasporto del gas: uno subacqueo, a 700 metri dalla spiaggia, l’altro sulla terraferma, lungo 8 km, per il quale sarà necessario sradicare 1900 ulivi.
Gli elementi problematici di questa opera sono molti. Anzitutto, la millantata indipendenza europea e italiana dalla Russia: il gas in sé, ma anche l’azienda che estrae il gas, sono in parte di proprietà della Federazione. Dunque, in definitiva, non sarà possibile sganciarsi, sia perché il fabbisogno europeo di gas non sarà soddisfatto totalmente dalla TAP, sia per quanto appena detto, cioè per motivi di semplice azionariato.
Altro problema: l’impatto ambientale. La multinazionale svizzera ha promesso di rimpiantare tutti gli ulivi, e che l’opera non avrà conseguenze per l’economia del posto. Tuttavia, per l’impianto subacqueo sarà necessario costruire un terrapieno di calcestruzzo cementizio, a due passi dalla spiaggia di San Foca, che da anni vince il premio «Bandiera blu». Forse, dopo la costruzione, ripetere questo primato sarà difficile. Per quanto riguarda gli ulivi, molti di questi sono centenari, e non è stato specificato in che senso si procederà per salvarli. Per ora 30 di questi sono stati rimpiantati in vasi da parte degli attivisti no Tap. C’è poi il problema dello smaltimento dei polimeri e dei metalli, dal momento che tra 50 anni l’opera sarà abbandonata.
Le citate ricadute occupazionali non sono in realtà sicure: l’azienda ha specificato che non si assumeranno in via preferenziale i lavoratori locali rispetto ad altri più qualificati. Ultima ma non meno importante, la protesta della lega italiana per la lotta contro i tumori (Lilt), che ha ricordato che il Salento ha il primato italiano per tumori al polmone degli uomini.
Dunque, un progetto controverso, i cui vantaggi e danni sono del tutto potenziali e su cui però è comunque necessario riflettere per avere un’idea completa sulla vicenda.