Terapia con il plasma: non si gridi alla soluzione definitiva

Nelle ultime settimane, riguardo l’epidemia da Coronavirus, è particolarmente sentito il tema della terapia con il plasma tratto da persone guarite. Sono numerose le speranze che questa possibilità ha accesso nell’animo di molti italiani, che sembrano essere convinti del fatto che si sia ormai trovata la cura miracolosa e che, per qualche motivo, la scienza la stia tenendo nascosta. L’idea di usare il plasma delle persone guarite non è nuova: infatti, è già stata tentata per la SARS del 2002 e la MERS del 2012, oltre all’Ebola nel 2014.

Questo approccio è effettivamente una delle possibilità che si stanno testando per il trattamento dell’infezione: il nodo cruciale, però, è proprio questo. Nell’ospedale San Matteo di Pavia, per esempio, la terapia con il plasma è attualmente in fase di studio ma non si può ancora oggettivamente dichiarare se abbia successo o meno. Essa, quindi, non è ignorata dalla comunità scientifica, che anzi la sta appunto sperimentando, semplicemente è ancora presto per avere risposte certe. Comunque, ammesso che si riveli efficace, è doveroso accettarne i limiti.

Innanzi tutto, uno dei principali problemi riguarda proprio gli anticorpi. Uno studio (Long et al., Antibody responses to SARS-CoV-2 in patients with COVID-19, Nature, 2020) ha recentemente dimostrato che il 100% dei soggetti studiati sviluppa anticorpi contro il Covid-19 e questa è una notizia estremamente positiva. Tuttavia, è stato anche visto che la carica anticorpale ha una grande variabilità intersoggettiva e ciò influenza sicuramente l’immunità sviluppata contro il virus. Non si sa quanti soggetti sviluppino una copertura sufficiente a essere immuni e a poter donare: al momento, la soglia che è attualmente adottata è > 160 con metodo EIA. Inoltre, il donatore deve essere virologicamente guarito dalla malattia, quindi avere avuto i due tamponi negativi. Questi criteri sono stati stabiliti dalle società dalla SIdEM e SIMTI, che hanno anche indicato tutti i dettagli standardizzati per la procedura. Ovviamente, restano in vigore i requisiti normalmente validi per la donazione del plasma, con qualche deroga, per esempio sull’età.

Trovare quindi i donatori già di per sé non è facile, soprattutto considerando che al momento i guariti si attestano a quota 115 mila e una buona parte di essi non potrà donare per altri problemi di salute o magari non vorrà (è infatti impossibile, ovviamente, obbligare un soggetto a donare il sangue). Anche considerando gli asintomatici guariti che non sono compresi in questo conteggio, si stima che il totale di infetti sia di qualche milione, certamente insufficiente per coprire tutti i possibili malati, soprattutto perché c’è un limite alle donazioni annuali.

Bisogna anche considerare i requisiti per i pazienti: non tutti possono, infatti, ricevere il plasma indistintamente. Infondere plasma umano non è certamente scevro da effetti collaterali: esiste un rischio di epatite o shock anafilattico, come ha dichiarato la virologa Ilaria Capua; il plasma altera la coagulazione che è già fortemente provata dall’infezione e potrebbe causare squilibri di natura emorragica o trombotica. Inoltre, è possibile che un paziente curato con il plasma abbia minor probabilità di sviluppare un’immunità efficace: ciò significherebbe che i soggetti trattati potrebbero riammalarsi, il che è un problema alquanto rilevante. Attualmente, le indicazioni sono piuttosto ristrette: nella sperimentazione del San Matteo di Pavia, sono esclusi i pazienti gravi (cioè con ARDS, un’insufficienza respiratoria, da più di 10 giorni) oppure con allergie a emoderivati.

Insomma, il plasma sicuramente potrebbe salvare molte vite e, se si rivelerà efficace, verrà utilizzato nei casi che possono beneficiarne. Tuttavia non è certamente una soluzione definitiva alla pandemia né, purtroppo, una possibilità per garantire un ritorno alla vita normale a breve termine senza le dovute attese e precauzioni.