Torino: la giunta per un linguaggio contro la discriminazione di genere
L’11 settembre scorso presso il comune di Torino una delibera approvata dalla giunta Appendino ha imposto alcune modifiche al gergo della pubblica amministrazione, con lo scopo di evitare le discriminazioni sociali e di genere. Ecco quindi che i bandi saranno rivolti a «cittadine e cittadini» e «funzionarie e funzionari» mentre in Comune si scriverà di «consigliere e consiglieri» e di «assessore e assessori». Nei documenti pubblici si scriverà «il corpo insegnante» anziché «gli insegnanti», «la clientela» anziché «i clienti» e negli avvisi degli uffici aperti al pubblico non si leggeranno più «i cittadini in attesa» bensì «le persone in attesa».
Sono tutti termini già suggeriti da Cecilia Robustelli in Donne, grammatica e media. Suggerimenti per l’uso dell’italiano, opuscolo pubblicato dalla rete di giornaliste Gi.U.Li.A e liberamente consultabile in rete, di cui vi avevamo già parlato.
La delibera non è altro che il frutto di un lavoro iniziato già con l’amministrazione Fassino e non si tratta certo della prima decisione di questo tipo: già a partire dalla Direttiva del 23 maggio 2007 si è caldamente raccomandato alle amministrazioni pubbliche di utilizzare espressioni rispettose delle differenze di genere in tutti i documenti ufficiali. Benché dopo quest’azione siano mancate sia emanazioni di linee guida sia prese di posizione ufficiali da parte dello Stato, ciò non ha scoraggiato le amministrazioni di comuni, province, regioni ad attuare iniziative in autonomia, soprattutto a seguito della riforma del titolo V della Costituzione (2001): nel 2014 la Regione Emilia Romagna, per la prima volta nella storia italiana, ha varato una legge nella quale è presente un articolo che sprona a «riconoscere, garantire e adottare un linguaggio non discriminante» (art.9, Titolo III della Legge quadro regionale per la parità e contro le discriminazioni di genere); nel 2016 è stato il turno della Regione Sardegna.
Una spinta al cambiamento, che, come vi abbiamo anticipato riteniamo necessario, dovrebbe arrivare non solo dalle istituzioni, ma anche dal mondo dell’informazione: eppure, nel dare la notizia della delibera, La Stampa parla di mero politically correct, mentre Il Giornale di una «rivoluzione lessicale e linguistica di cui in pochi, c’è da giurarci, sentivano il bisogno». Rivoluzione in atto, tra parentesi, dal momento in cui si è iniziato a parlare di operaie, cassiere, cameriere e parrucchiere, ovvero da decenni, se non di più.
E possiamo scommettere che nei prossimi giorni non tarderanno a sorgere altre polemiche. Eppure ormai oggi l’uso di sindaca e ministra si sta imponendo, con buona pace di chi si fa portavoce di un certo conservatorismo linguistico e che non sa – o non vuole ammettere – che le lingue sono in continuo cambiamento.
Articoli non firmati o scritti da persone esterne al blog
Oggi la grammatica la scrivono i politici. Va bene così? Per me no, ma la risposta capisco possa essere soggettiva.
Mi limito solo a sottolineare che, per fare un esempio, “persona” è un sostantivo femminile. Quindi quando si sostituisce “cittadini” con “persone” non si fa altro che scegliere un nuovo tipo di discriminazione. Una discriminazione che forse ad alcuni potrà sembrare più giusta, ma che sicuramente sempre di discriminazione si tratta.
Senza contare che molte “avvocatesse” o “avvocate” si fanno chiamare “avvocato” al maschile. Perché? Una volta un’amica mi rispose: “avvocatessa” è spregiativo come tutto ciò che finisce in -essa e avvocata, mamma mia!, non sono mica la Madonna!”
A dirla tutta, poi, i nomi maschili che finiscono in -ore andrebbero tradotti al femminile in -rice. Come untore e untrice, amministratore e amministratrice, salvo voler utilizzare l’orrendo -essa. Professore e professoressa (spregiativo) viene utilizzato solo perché professrisce risulta semplicemente inascoltabile. “Questora”, “assessora”, “rettora” e quant’altro non esistono punto.
Ma in conclusione, sicure e sicuri che questa sia una battaglia veramente utile? A me a volte sembra, perdonatemi, il canto del cigno di una stagione politica che non sa più cosa dire per sopravvivere. Incapace di affrontare i problemi reali si aggrappa a questioni più spendibili sull’odierno mercato delle idee.
Non voglio aggiungere altro, un caro saluto all’autrice (o autora?)
Ammetto che le lingue sono in continuo cambiamento e non mi faccio portavoce di alcun movimento volto alla conservazione della lingua italiana, ma non posso fare a meno di rimanere perplessa davanti a questa tendenza della politica a voler imporsi su un’espressione così legata al popolo da essere più democratica della tanto citata sovranità di cui al primo articolo della nostra Costituzione
La sovranità appartiene al popolo che la esercita però, si sottolinea, nelle forme e nei limiti ecc ecc. Lasciateci almeno la lingua, lasciate che essa si plasmi e si adatti ai nostri costumi, non sia il potere a imporsi sui mores della nazione, e poco importa se questa spinta dall’alto è animata dai migliori intenti di uguaglianza di genere (che poi sia a mio avviso cosa totalmente errata è un altro discorso, uomini e donne sono diversi in tutto e per tutto, non di meno ogni persona merita rispetto e di poter sviluppare secondo criteri equi le sue potenzialità)
Non si può inculcare il rispetto tra le persone modificando le parole o intervenendo sulla mera declinazione al femminile dei vocaboli
Se una persona che è nata donna e vi si sente, ricopre il ruolo di titolare di un ministero, perché chiamarla ministra? Ricopre forse un ruolo diverso da quello del suo omologo uomo? Per il fatto stesso di ricoprire quel ruolo ed essere chiamata ministro viene in qualche modo intaccata nella sua dignità o nella sua identità di donna? Sarebbe ridicolo motivare così un’imposizione dall’alto
A ben pensarci, il “problema” si pone solo per le parole che hanno a che vedere con le alte sfere: ministro, sindaco, assessore e via discorrendo. Mentre invece, esistono da sempre maestre, operaie, sarte; forse che queste hanno raggiunto la tanto blasonata uguaglianza per il sol fatto di avere un nome comune femminile che le identificasse? Ovvio che no, anzi