Trattativa: continua il processo d’appello verso la verità
Aprile è il più crudele dei mesi, scriveva Thomas Stearns Eliot. Ma è anche il mese delle tappe verso una verità processuale su un pezzo di storia d’Italia. Il 20 aprile 2018 la seconda sezione della Corte di Assise di Palermo ha emesso la sentenza di primo grado del Processo Trattativa, che ha condannato (tra gli altri) a pene tra gli 8 e i 28 anni Marcello Dell’Utri, i vertici del R.O.S. Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno e i mafiosi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. Il 29 aprile scorso è iniziato il processo d’appello.
Il fatto che la Trattativa ci sia effettivamente stata è stato già confermato dalla Corte d’Assise di Firenze, nella sentenza con cui il boss Francesco Tagliavia è stato condannato all’ergastolo, il 5 ottobre 2011: «Indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini della mafia».
Il processo parallelo a Mannino
Mentre è appena iniziato il secondo grado del processo sulla Trattativa, l’ex ministro Calogero Mannino – avendo chiesto il rito abbreviato – è coinvolto in un processo parallelo. Assolto in primo grado, per lui la procura generale ha chiesto in appello una condanna a 9 anni per minaccia a corpo politico dello Stato. Mannino ha parlato di «fake news», ribadendo che «la richiesta che l’ufficio dell’accusa ha avanzato è priva di ogni fondamento e prova».
Il contesto
Il periodo in questione va dal maggio 1992, quando a Capaci vengono uccisi Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della scorta, al 27 gennaio 1994, giorno dell’arresto dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, tra i responsabili delle bombe di mafia del 1993 a Milano, Firenze e Roma.
Il processo sulla Trattativa in una sentenza di primo grado di oltre 5000 pagine ha messo nero su bianco che Cosa Nostra e istituzioni si sono messe d’accordo per l’interruzione delle stragi in cambio di alcuni favori legislativi.
La ricostruzione della sentenza
Secondo i giudici della Corte d’Assise di Palermo, la Trattativa ha ufficialmente inizio tra il 28 e il 29 maggio 1992, su un aereo da Roma a Palermo, quando il capitano del R.O.S. Giuseppe De Donno incontra Massimo Ciancimino, figlio di Vito, e gli chiede di poter incontrare il padre.
Tra il 25 e il 28 giugno Paolo Borsellino incontra prima Mori e De Donno, poi Liliana Ferraro, vicedirettore agli Affari Penali al ministero della Giustizia. La donna gli racconta dei contatti fra Mori e Ciancimino. Borsellino spiega alla Ferraro di saperlo già. Nel frattempo si insedia il governo Amato, con il democristiano Nicola Mancino come ministro dell’Interno.
Proprio in quei giorni, Totò Riina racconta a Giovanni Brusca di aver scritto un «papello» di richieste per lo Stato, in cambio della fine delle stragi. Nello stesso periodo il Capo dei Capi inizia a pianificare l’omicidio di Borsellino, il quale il 15 luglio confida alla moglie Agnese che il generale Subranni aveva contatti con la mafia. È consapevole che, dopo Falcone, ben presto sarà ucciso anche lui. Infatti il 19 luglio muore nell’attentato di via D’Amelio, a Palermo.
Nel settembre successivo Riina spiega a Brusca che la Trattativa si è interrotta, e che quindi bisogna agire nuovamente contro lo Stato. Viene così preparato l’attentato all’allora giudice Pietro Grasso, omicidio poi saltato per alcuni problemi tecnici.
La stagione delle bombe
La situazione cambia radicalmente quando, il 15 gennaio 1993, viene arrestato Totò Riina, dopo 23 anni di latitanza. Il gotha di Cosa Nostra si divide fra chi vuole continuare la stagione stragista e chi invece intende cambiare strategia. A cercare di conciliare le due istanze è Bernardo Provenzano che riesce a giungere a un accordo: si continua con gli attentati, ma solo fuori dalla Sicilia, in «continente».
Dopo alcune lettere e telefonate minatorie dirette a diversi soggetti (fra cui l’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro), il 14 maggio 1993 il giornalista Maurizio Costanzo per puro caso non viene ucciso da un’autobomba.
Poi arrivano gli attentati a Firenze, a Milano e a Roma. Tra marzo e maggio 1993 viene tolto il 41bis a 121 detenuti.
Il 1994 è l’anno della fine della strategia stragista della mafia e si apre con due eventi fondamentali a brevissima distanza l’uno dall’altro. Il 26 gennaio, con un videomessaggio in VHS, Silvio Berlusconi annuncia la sua «discesa in campo» in politica. Il giorno dopo a Milano vengono arrestati in un ristorante i boss stragisti Filippo e Giuseppe Graviano. A questo punto qualcosa cambia radicalmente: niente più bombe, Cosa Nostra torna silente.
Dal progetto indipendentista a Forza Italia
Nell’autunno 1993 nascono e si sviluppano movimenti indipendentisti come «Sicilia Libera», che si riuniscono nella «Lega Meridionale» e che sono riconducibili a Cosa Nostra.
Secondo il collaboratore di giustizia Tullio Cannella, Provenzano e i Graviano abbandonano il progetto di «Sicilia Libera» per appoggiare la neonata Forza Italia, da poco fondata da Berlusconi e Dell’Utri. Perché proprio Forza Italia? Probabilmente per i rapporti che Dell’Utri aveva con Cosa Nostra, rapporti che hanno portato alla sua condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa.
Ma Berlusconi, anche se non da imputato, ha molto a che fare con il processo Dell’Utri, visto che diventa sentenza definitiva che dal 1973-1974 al 1992 (almeno), l’ex Cavaliere versa «per diversi anni somme di denaro nelle casse di Cosa Nostra». Nel 1993 – viene spiegato durante il processo a carico di Dell’Utri – i rapporti fra Berlusconi e la mafia, rapporti di cui Dell’Utri è mediatore, debordano anche nella politica con la nascita di Forza Italia: Bernardo Provenzano, allora capo indiscusso di Cosa Nostra, «ottenne garanzie» tali da «votare e far votare» il neonato partito berlusconiano. Le garanzie sono state fornite dallo stesso Dell’Utri, grazie ai suoi rapporti con Bontate, Mangano e Mimmo Teresi.
Giornalista professionista e fotografo. Ho pubblicato vari libri tra storia, inchiesta giornalistica e fotografia