Trump mantiene le promesse
Fin dall’elezione di Trump sapevamo che il vero rischio della sua presidenza sarebbe stata la voglia irrefrenabile di imporre dazi a destra e manca.
Dopo qualche tentennamento eccoci giunti al primo round di dazi, nella fattispecie sui pannelli solari importati dalla Cina e sulle lavatrici coreane, il tutto aspettando settori ben più rilevanti quali quello dell’acciaio e dell’alluminio, che coinvolgeranno probabilmente anche l’Europa.
Ora, il messaggio che si cerca di far passare a livello mondiale è che iniziare a porre dazi potrebbe scatenare una guerra commerciale, dove al dazio americano si risponderebbe con un altro dazio, questa volta cinese o europeo.
Un film già visto che nei primi anni ’30 del secolo scorso determinava il crollo del commercio internazionale e con lui della crescita economica.
Non è un caso se invece i maggiori tassi di crescita economica si siano avuti dopo gli accordi di Bretton Woods a livello mondiale e la fondazione della Cee a livello europeo, con i quali finalmente le barriere doganali iniziarono ad essere abbattute.
Tutto giusto e corretto, ma la ragione che deve portare la gente a rigettare la logica dei dazi è in realtà ben più profonda e
purtroppo difficile da capire. La ragione è che i dazi, anche senza la risposta degli altri paesi, rappresentano una politica
economica che abbassa il benessere dei cittadini e non aiuta per niente le economie.
Per cogliere il significato di questo concetto si può pensare proprio all’esempio dei dazi sui pannelli fotovoltaici. Innanzitutto, ci viene detto che la spinta verso i dazi di Donald origina dalla sua avversione verso le
energie alternative a favore invece di quelle tradizionali ad idrocarburi. Poco male potrebbe pensare qualcuno: sarà sufficiente togliere le sovvenzioni.
Purtroppo o per fortuna non è così. Infatti, a quanto risulta, il costo dell’ultimo fotovoltaico è ormai più che concorrenziale rispetto al carbone. Ma c’è di più.
Chi potrebbe avvantaggiarsi dei dazi? Ovviamente l’industria che produce pannelli fotovoltaici, tuttavia, se si guarda alla classifica dei principali produttori mondiali, nei top 10 risultano sole due aziende americane, che peraltro sono produttori/consumatori, e il totale mondiale prodotto dagli Usa al 2013 non arrivava al 5%. Questo spiega semplicemente che sono ben poche le realtà industriali interne agli Usa che potranno beneficiare di questa chiusura dal punto di vista della produzione.
Infatti, viene citata Tesla come possibile azienda che verrà favorita dai dazi, ma solo a livello ipotetico, visto che tale azienda per ora non produce le celle solari vere e proprie.
Sono, invece, molte le imprese Usa che usano i pannelli fotovoltaici importati e queste verranno certamente colpite da questa manovra economica.
Resta da capire cosa comporterà nel breve periodo tutto ciò. Considerato che dal 2015 il settore energetico solare americano ha superato per numero di
lavoratori sia quello a gas che quello a carbone (fonte Seia) solo per quest’anno verranno persi, e sottolineo persi, più di 20.000 posti di lavoro nell’industria fotoelettrica.
Questa è la vera politica economica negativa dei dazi: innalzano i costi e i prezzi interni del paese che li impone, diminuendo così da un lato il reddito reale dei cittadini (ossia al netto
dell’inflazione), dall’altro aumentano i costi di produzione delle aziende Usa relativamente al resto del mondo, bloccandone quindi la possibilità di esportare.
In conclusione, le aziende statunitensi del settore protetto dai dazi non esporteranno più niente anche senza la risposta daziale dei paesi concorrenti e proprio a causa del loro costo maggiorato dalla protezione
statale.
In termini assoluti, quindi, l’azione di Trump ha diminuito e continuerà a diminuire l’efficienza e la competitività del sistema economico e, ovviamente (ma questo lo teniamo per ultimo considerando lo scarso interesse del Presidente per il tema) ha rallentato lo sviluppo di tecnologie più ecologiche e tutto sommato economicamente più convenienti.