Sangue, violenza e torture: la Tunisia fa luce su 56 anni di Storia
Il 17 novembre 2016 è stato un giorno storico per la Tunisia: a cinque anni dalla fine di una lunga dittatura, finalmente il paese ha potuto riconciliarsi con se stesso attraverso un faticoso ma catartico faccia a faccia con la propria storia.
Si è tenuta infatti la prima audizione pubblica delle vittime di crimini e violazioni commessi dal 1955 al 2011, organizzata dall’Instance Verité et Dignité (Istanza per la Verità e la Dignità). La commissione, creata nel 2013 con il compito di far luce sui fatti accaduti nell’arco dei 56 anni perché sia fatta giustizia, ha accettato più di 55mila dossier (dei 62mila presentati) e ha ascoltato a porte chiuse oltre 12mila testimoni. Le audizioni pubbliche non sono che una piccola parte di un lunghissimo lavoro, ma ne rappresentano sicuramente il culmine quanto a potenza simbolica; e i protagonisti hanno dimostrato di esserne all’altezza, denunciando le ingiustizie subite con compostezza, lucidità e senza pronunciare parole di vendetta.
Il periodo sotto inchiesta sono i primi decenni della Tunisia come stato autonomo: il 1955 è infatti l’anno precedente alla proclamazione dell’indipendenza tunisina dalla Francia e della nomina di Habib Bourghiba a primo presidente. Bourghiba, leader della lotta per l’indipendenza, promosse in un primo momento una modernizzazione del paese, che poteva vantare una concessione di diritti e servizi superiore a quella di alcuni paesi europei. Ma ben presto il governo prese una direzione autoritaria che si accentuò con il dilagare della corruzione e del clientelismo e portò a una grave crisi politica ed economica, e infine alla deposizione del presidente con un colpo di stato «medico». Nel 1987 Ben Ali prese il potere, ma le cose non migliorarono: impose un regime autoritario fondato sulla repressione degli oppositori, attacchi alla libertà di stampa, negazione di diritti umani. Solo nel 2011 la Tunisia riuscì a porre fine alla dittatura, grazie a proteste popolari che diedero vita alla Rivoluzione dei Gelsomini, nel contesto della Primavera Araba.
Dai dossier esaminati sono emersi ben 32 tipi di violazioni di diritti umani, il 76% delle quali riguarda i diritti civili e politici (omicidio, stupro, tortura), mentre il restante 24% ha a che fare con la violazione di diritti di tipo economico, sociale e culturale (accesso al lavoro, ai servizi, alla cultura, all’educazione). Le violazioni più comuni sono l’arresto illegale, limitazioni della libertà di espressione, la tortura.
Basta però osservare un dato per capire quanto il lavoro dell’Ivd non possa ancora essere considerato esaustivo: i dossier che riguardano le donne sono tre volte meno numerosi di quelli che riguardano gli uomini, ma non perché la repressione abbia toccato più gli uomini. Piuttosto, le donne sono più restie a denunciare, per paura delle ritorsioni della propria famiglia, prima ancora che dello stato o della società; inoltre, spesso non si sentono interamente vittime, ma tendono a riconoscere piuttosto mariti e figli come tali; e se questi hanno già depositato un dossier non sentono il bisogno di consegnarne uno proprio.
La testimonianza della madre di Kamel Matmati è tra le più toccanti. Militante islamista, Kamel fu arrestato nel 1991 dalla polizia sul luogo di lavoro e la famiglia non ha avuto sue notizie per anni. La madre ha raccontato: «Sono andata a Tunisi dove l’ho cercato per quattro anni senza sosta, andando da un posto all’altro… Il velo bagnato di pioggia e di fango l’inverno, di sudore l’estate. Ho passato ore davanti ai tribunali, sono andata in tutte le prigioni tunisine». Solo 18 anni più tardi ha saputo che Kamel era morto nei primi due giorni dopo il suo arresto sotto le torture della polizia. Ora chiede solo di poterne seppellire il corpo.
Inedita invece la testimonianza di Hammadi Ghares, che ha vissuto gli anni dell’occupazione francese e ha lasciato gli studi in giovane età per unirsi alla lotta per l’indipendenza. Ha raccontato un episodio ancora sconosciuto: nel corso della Rivoluzione Tunisina degli anni ’50, i soldati francesi accerchiarono il piccolo paese di Tazarka, fecero uscire tutti gli uomini, violentarono le donne e saccheggiarono le case, uccidendo gli uomini che tentavano di difenderle e senza risparmiare nemmeno i neonati. Il fatto più grave è che gli attacchi francesi dopo l’indipendenza non si sono fermati, ma al contrario si sono intensificati e avrebbero provocato, secondo Ghares, centinaia di morti i cui corpi forse aspettano ancora di essere ritrovati. Ghares si pone dunque degli interrogativi sul ruolo del primo presidente tunisino Bourghiba e sul rapporto tra Tunisia e Francia, e si chiede come si possa accettare che a Tunisi ci sia una strada dedicata a Charles de Gaulle: «Se è un eroe per i francesi, per noi è un boia».
Questi giorni, in cui i racconti toccanti delle vittime sono arrivati in ogni casa e le loro voci hanno riportato in vita storie terribili da un passato allo stesso tempo recente e remoto, non saranno mai più dimenticati. «Mai più accetteremo violazioni dei diritti umani», ha dichiarato la presidente dell’Ivd Sihem Bensedrine. «Nessuna voce può levarsi al di sopra di quella delle vittime. Nessun prestigio allo stato senza diritti umani. È questo il messaggio che oggi la Tunisia manda a tutto il mondo».