Unhcr: migranti, quale popolo è il più ospitale?
Il 20 Giugno scorso l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) ha pubblicato il suo rapporto annuale relativo all’anno 2015, che contiene i dati raccolti sull’aumento in modo sproporzionato dei rifugiati e degli sfollati nel mondo. Per «rifugiato» si intende colui che è costretto a fuggire dal proprio paese perché perseguitato, o perché appartenente a una categoria soggetta a discriminazioni o a causa di una guerra.
Il rapporto in questione ha messo in luce che rispetto all’anno precedente le persone sfollate arrivano a 65,3 milioni, un numero mai raggiunto prima d’ora e che se di primo impatto potrebbe dirci poco, assume invece un diverso significato se lo si legge insieme ad altre considerazioni: 65 milioni di sfollati nel 2015 significa che una persona ogni 113 è senza una casa, senza un paese ed è stata costretta ad abbandonare la propria vita; 65 milioni di sfollati sarebbe come dire che più di tutta la popolazione italiana è stata costretta alla fuga.
Negli ultimi 5 anni si è riscontrato l’aumento più significativo, e i fattori sono diversi: le situazioni che causano l’aumento dei rifugiati sono più durature nel tempo (la guerra in Somalia o in Afghanistan), si accendono continuamente nuovi o vecchi conflitti (la Siria è l’esempio più eclatante) e infine si considerano troppe poche soluzioni o in modo sbagliato. E così le guerre aumentano, le persone che attraversano il mare in cerca di salvezza muoiono, coloro che scappano via terra si trovano i confini bloccati: perché le risposte più frequenti che siamo stati capaci di dare sono state alzare i muri, abbandonare i paesi che per primi si devono occupare del problema o ritenere che coloro che son morti in mare siano una questione in meno da gestire.
Questo è lo scenario nel quale viene introdotto il così detto Global Hospitality Index da una ricerca svolta da Amnesty International, che indica i paesi «più ospitali» nei confronti dei rifugiati, individuati su un campione di 27mila cittadini di 27 paesi diversi nel primo periodo di quest’anno. La ricerca, di cui si parla nella rivista Good Magazine in un articolo di Katie Wundel, si basa su un concetto direttamente collegato al problema dei rifugiati: quello dell’accoglienza e dell’ospitalità.
Ora, l’Italia purtroppo non è stata presa in considerazione, ed è un peccato visti i termini accesi con cui si presenta il problema nel nostro paese, ma la ricerca ci dà comunque dei dati interessanti su cui riflettere: se l’ultimo posto guadagnato dalla Russia in termini di propensione all’ospitalità poco ci stupisce, la posizione degli Stati Uniti nella top 10 dei paesi più ospitali colpisce sicuramente di più, visto il loro candidato repubblicano Donald Trump.
La Germania, che nel 2015 è stato il paese europeo che ha accolto più rifugiati di ogni altra nazione (più di un milione), non si aggiudica il primo posto che, di nuovo sorprendentemente, viene lasciato alla Cina dove, anche se il governo si è rifiutato di accogliere i rifugiati siriani, i suoi cittadini si sono rivelati invece più ospitali della loro classe politica. Perché il punto forte di questa ricerca è che non si basa su quanti rifugiati i paesi si sono impegnati ad ospitare, né sulle politiche dell’accoglienza dei vari governi, ma ha dato invece spazio e ascolto ai comuni cittadini, un ascolto che i partiti politici non riescono più a dare perché hanno perso il loro ruolo di intermediari.
Comunque, a prescindere dalla posizione dei singoli paesi nella classifica, quello che sorprende è che l’80% degli intervistati «accoglierebbe i rifugiati a braccia aperte», e la maggior parte di questi sarebbero anche pronti ad accoglierli nelle proprie case.
Questo dato ha spinto il segretario generale di Amnesty International a fare una considerazione: non sono le persone a non voler accogliere i rifugiati, sono piuttosto le «risposte inumane» dei governi che non corrispondono alla visione dei propri cittadini, perché troppo spesso al livello delle discussioni politiche viene usata una «retorica xenofoba», che fomenta un odio che in realtà sta anche contribuendo a creare.
Ci viene poi da pensare all’Italia, che non è stata inserita nella ricerca nonostante il ruolo di primo piano nell’ambito dell’accoglienza. Pensiamo da un lato a tutti coloro che in questi anni hanno lavorato nella gestione di questo problema e che spesso hanno salvato vite umane al largo delle nostre coste, e dall’altro a quelli che sputano frasi come «Era meglio se stavano a casa loro», «Ci rubano il lavoro» o «Se muoiono è un problema in meno». Mi viene da pensare a queste due categorie di persone, e proprio non riesco ad immaginarmi la posizione che avrebbe l’Italia nella classifica del Global Hospitality Index, sarei davvero curiosa di scoprirlo. Certo è che al livello politico siamo indietro: da noi spesso non si discute sulle modalità di accoglienza, ma sull’opportunità o meno di accogliere. Ma si può davvero lasciare che qualcuno discuta di non-accoglienza proprio nel momento storico in cui la necessità di accogliere aumenta? Quando si sa che più della metà dei rifugiati nel mondo sono bambini, che spesso viaggiano senza i genitori? Ma soprattutto sapendo che tutti scappano dalla guerra e dalla morte? No. Il discorso dev’essere un altro.