All’Unipd si parla di immigrazione con l’Ue
Padova: venerdì scorso, nella prestigiosa Aula Magna dello storico Palazzo Bo dell’università, è stato ospitato il convegno Geografie del cibo: processi migratori e trasformazioni geopolitiche in Europa, organizzato dall’Unione Europea in collaborazione con l’Università di Padova. Tema del ciclo di convegni promossi dall’Ue è il problema terribilmente attuale e straziante dei flussi migratori; e in questo particolare incontro del cibo in relazione ad essi. Ma come mai l’Europa si pone il problema delle migrazioni quando ormai la situazione sembra ingestibile?
Questa incapacità di lungimiranza denota, secondo l’ospite d’eccellenza Romano Prodi, la perdita della connotazione con la quale l’Unione è nata, ovvero come agglomerato di minoranze. Già a questo punto della storia di una tale giovane istituzione, l’attenzione unica dei singoli Stati membri alla propria situazione interna sancisce la morte del principio fondante: una visione di insieme più ampia. Abbiamo, in pratica, messo in pratica un po’ troppo radicalmente il vecchio consiglio dei nonni di guardare solo nel nostro piatto, e così mentre l’Italia pensa alla riforma della scuola, la Germania ai rapporti di emissioni truccati della Volkswagen, e via dicendo, i numeri parlano di 800 milioni di persone al mondo che non hanno disponibilità assoluta di cibo, e del 2,5% di acqua dolce sul pianeta, di cui solo lo 0,008% potabile. A causa, anche, dell’instabilità climatica, che secondo alcune previsioni produrrà 250 milioni di eco-profughi entro il 2050, i dati si aggiornano continuamente, ma che al mondo non ci sia abbastanza cibo o acqua per tutti si era capito da tempo. Perché non si è cercata una soluzione per la distribuzione e gli aiuti prima che dei disperati ci bussassero alla porta? È inutile, nonostante sia già un primo passo, parlare di «aiutarli a casa loro» contribuendo allo sviluppo di agricoltura e tecnologie sostenibili, quando anche l’appello alla ripresa della ricerca pubblica in campo agricolo rimane unicamente in un’aula universitaria. Parole e parole che arrivano alle orecchie di un pubblico di cui almeno il 50% tra 35 anni non si troverà a dover gestire situazioni critiche, perché morto. Se si vuole sensibilizzare i giovani alla questione ditegli che a 56 anni potrebbero essere loro a dover bussare alle porte di qualcun altro, e non per chiedere lavoro, come fanno ora, a 20 anni, ma per chiedere di poter vivere. Come ricorda Telmo Pievani, professore associato dell’Ateneo Patavino, l’uomo è nato come specie mobile e migra da 200 milioni di anni sulle stesse rotte che ora seguono africani, siriani e libanesi. Anche il direttore del Gazzettino, Roberto Papetti, concorda sull’impossibilità che si fermino i flussi migratori e la questione ritorna sulla necessità di gestirli meglio. E se il nocciolo stesse nel far di nuovo proprio il motto, tristemente sbeffeggiato, che ripeteva Gianni Morandi alla conduzione del Festival di Sanremo qualche anno fa: «Restiamo uniti!»?
Debora Lupini
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