L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea
«Esiste un rimedio che in pochi anni renderebbe tutta l’Europa libera e felice. Esso consiste nella ricostruzione della famiglia dei popoli europei, o in quanto più di essa riusciamo a ricostruire, e nel dotarla di una struttura che le permetta di vivere in pace, sicurezza e libertà. Dobbiamo costruire una sorta di Stati Uniti d’Europa», diceva il primo ministro britannico Winston Churchill nel 1946 nel famoso discorso alla gioventù accademica tenuto all’Università di Zurigo, di fronte a un’Europa distrutta e lacerata dalle conseguenze delle due guerre mondiali. Il processo di integrazione europea si è svolto lungo un continuum fatto di sfide, di sogni di grandi leader fondatori che hanno lavorato duramente per realizzare il progetto comunitario di pace, unità e prosperità, valori che oramai diamo per banali e sottintesi. Gli ultimi anni sono divenuti di particolare complessità per il futuro dell’Unione Europea. Una delle questioni più delicate in atto in questi ultimi mesi è l’uscita del Regno Unito dalla Comunità.
Il Regno Unito, fin dal suo ingresso nella Comunità è sempre stato distaccato e critico verso il progetto sopranazionale, fatto di continue rinegoziazioni sulle politiche europee e di incertezza da parte della classe politica e dei cittadini se rimanere o meno all’interno della Comunità Europea. La profonda diffidenza nei confronti dei principi fondatori, dei poteri attribuiti alle istituzioni comunitarie e verso la moneta unica sono stati una costante della politica inglese. La Gran Bretagna ha infatti ottenuto fin dalla firma del Trattato di Maastricht degli opt-out, ovvero delle clausole contenute nella legislazione comunitaria e nei Trattati dell’Unione Europea che riguardano la Convenzione di Schengen, dove la Gran Bretagna può mantenere i controlli alle frontiere esterne, l’Unione Economica e Monetaria, con la non adozione della moneta unica, la Carta dei Diritti Fondamentali e infine la scelta di partecipare o meno a questioni relative allo spazio europeo di sicurezza, giustizia e libertà. Le richieste portate avanti dal premier David Cameron nell’ultimo vertice europeo di Bruxelles, fatte per tutelare essenzialmente l’interesse del proprio paese e in chiara opposizione con alcuni principi fondatori dell’Unione Europea, hanno riguardato in sintesi l’esclusione del Regno Unito verso un’integrazione federale sempre più stretta e la limitazione dell’accesso ai servizi del welfare per i lavoratori immigrati della comunità che vivono in Gran Bretagna.
Al di là della gravità e dell’impatto politico ed economico che potrebbeavere il Brexit non solo all’interno dello spazio europeo ma anche nello stesso territorio britannico, la sua uscita sarebbe sicuramente delicata perché porterebbe a un processo di ulteriore disintegrazione e frammentazione tra gli stati membri. Allo stesso tempo però è sempre un paese che critica continuamente le strutture sopranazionali dell’Unione, cerca di frenare in ogni modo ogni processo di integrazione più stretto tra i popoli dell’Europa, e gli ambienti politici di Westminster sono sempre più euroscettici. In un momento così delicato costituito da crisi migratorie, dalla guerra in Siria, dalla questione libica e dal terrorismo in atto per citarne alcuni, il processo europeo ha bisogno di essere coeso e unito, alimentato dai valori e dagli ideali che hanno costruito questo «sogno europeo» definito così da alcuni padri fondatori come Altiero Spinelli, e non da disgregazioni continue o egoismi nazionali, una costante dell’atteggiamento inglese.