Vincent Van Gogh: rivoluzionare l’arte a propria insaputa
Qualche tempo fa, durante uno dei miei pigri pellegrinaggi pomeridiani su YouTube in cui vagavo annoiata tra un video di gatti pazzi e una «top tre testi più trash e assurdi di Sanremo», ecco che scorgo qualcosa che sento di voler realmente vedere: «Vincent Van Gogh visita la galleria». Incuriosita dal titolo, clicco e attendo che passino i soliti interminabili secondi di pubblicità molesta.
Finalmente inizia il video: per prima cosa appare il Tardis e a seguire Matt Smith, rivelandomi di essere approdata in una puntata della celebre e storica serie televisiva britannica Doctor Who. Non avendola ancora vista, in un primo momento, mi risultò difficile capire dove volesse andare a parare. Ma quando tutto divenne chiaro ricordo che dalla sentimentale che sono mi commossi.
Il mito di Van Gogh
La puntata in questione, la decima della quinta stagione, narra di un viaggio nel tempo in cui il protagonista della serie, insieme alla sua aiutante, si dirigono nella Francia del 1890, più specificamente nel luogo in cui il celebre pittore olandese Vincent Van Gogh stava trascorrendo i suoi ultimi mesi di vita.
In seguito a varie peripezie, i due personaggi principali e lo stesso Van Gogh riescono a liberare la piccola cittadina di Auvers-sur-Oise dalla orripilante e solitaria creatura extraterrestre che la infestava, compiendo così la loro missione. Uno degli aspetti davvero geniali della narrazione risiede nella rielaborazione della malattia mentale del pittore, che raggiunge il suo apice quando il Dottore decide di condurre un depresso, emarginato e sconfortato Van Gogh fino ai giorni nostri, al Musée d’Orsay di Parigi, per mostrargli quanto il suo talento, oggi, sia apprezzato e venerato da tutti.
A quel tempo, questo episodio mi fece riflettere parecchio. Ritenni che sarebbe stato bellissimo se Van Gogh fosse davvero venuto a conoscenza del fatto che la sua pittura abbia radicalmente cambiato il mondo dell’arte. Tanto più perché, per quanto possa sembrare oltremodo assurdo, quando il pittore era in vita le sue opere non ottennero alcun riconoscimento. Egli morì, appunto, solo, alla giovane età di trentasette anni, dopo aver trascorso buona parte della sua esistenza braccato dalla depressione e dai debiti.
Tra i pochi lavori che riuscì vendere durante tutta la sua vita, ricordiamo «La vigna rossa», opera che oggi troviamo esposta al museo Puskin di Mosca e che fu presentata per la prima volta a Bruxelles, al Salone annuale del Gruppo dei Venti, e che fu venduta, nel 1890, per la somma di appena 400 franchi (800/850 euro attuali). Oggi, lo stesso quadro vale milioni di euro. Ma proviamo ora a capire meglio chi fosse veramente Vincent Van Gogh.
Carattere difficile e rapporti familiari complicati
Vincent, mi permetto il tono confidenziale, nasce il 30 marzo del 1853 a Groot, un piccolo villaggio olandese vicino alla frontiera con il Belgio. È il primo di sei figli. Il padre, pastore protestante, vive seguendo dei modelli molto rigidi, in linea con i dettami religiosi e sociali dell’epoca. Sua moglie, madre del futuro pittore, condivide tale stile di vita, perciò entrambi avranno sempre molta difficoltà a mostrarsi tolleranti nei confronti del carattere difficile del figlio, il quale viene descritto come taciturno, ipersensibile e soggetto a frequenti scatti d’ira.
Forse è proprio a causa di questa attitudine, così inflessibile e legata alle convenzioni, che i rapporti tra Vincent Van Gogh e i suoi genitori saranno sempre piuttosto tesi. In una lettera del 1884 egli scrive al fratello: «Sento che Pa e Ma reagiscono istintivamente nei miei riguardi. Esitano ad accogliermi a casa loro, come si esiterebbe nell’accogliere un grande e irsuto cane. Entrerà con le sue zampacce sporche, pensano, e poi è molto irsuto. Disturberà tutti. E abbaia rumorosamente. Insomma – è una bestia sporca».
Il componente della famiglia meglio disposto nei confronti di Vincent era il fratello Théo, il quale, per tutta la vita, rimarrà il suo più fedele alleato. Di qualche anno più giovane, egli stringerà con il pittore, durante un soggiorno a La Haye, un patto di eterna amicizia che nessuno dei due oserà mai violare. Scrive Van Gogh in una lettera alla madre del 1889: «Penso tanto a voi, e al passato. Voi e Pa avete contato tanto per me… per quanto non sia sempre stato felice. Ho potuto vedere a Parigi, quanto Theo abbia fatto, molto più di quanto abbia fatto io, è stato un vero aiuto per nostro padre, tanto da sacrificare se stesso. Per questo sono felice che ora abbia trovato moglie e aspetti un bambino». Questo giovane fratello, che lo sosterrà e supporterà spiritualmente per tutta la vita, in alcuni periodi, gli fornirà anche un eventuale e significativo aiuto economico.
Triste, povero e incompreso
Al giorno d’oggi, le opere di Vincent Van Gogh sono valutate a prezzi incredibili. Lo conferma una recente asta indetta dal magnate del petrolio texano Edwin Cox, dove tre lavori del pittore sono stati battuti per la cifra complessiva 150 milioni di dollari, generando quasi la metà degli introiti totali dell’evento.
Tuttavia, come già accennato in precedenza, quando l’artista olandese era in vita ebbe molta difficoltà a vendere i suoi quadri. Generalmente, li barattava per cibo o beni di consumo quotidiani, trascorrendo così un’esistenza di stenti. Schernito e sbeffeggiato da tanti, marginalizzato per la sua malattia fisica e mentale, ricevette pochi complimenti e lodi durante la sua carriera.
Nel periodo in cui frequentò l’Accademia di Anversa, tra il novembre 1885 e il febbraio 1886, egli introdusse nella scuola un nuovo approccio al disegno che lasciò sbalorditi i suoi compagni, ma non convinse i suoi professori. Questi, indecisi sul tuo talento, lo relegarono nella classe dei principianti. A Parigi, tra il marzo 1886 e il febbraio 1888, espose alcune delle sue opere in diversi caffè e negozi ma senza mai venderne nessuna.
Il tempo e le delusioni lo segnarono a tal punto che quando, talvolta, arrivavano dei giudizi positivi, come quello del pittore Isaacson, il quale lo definì: «una personalità eccezionale… una pittura solitaria in lotta nella notte più nera», aggiungendo che il suo nome era destinato alla posterità, egli li ricevette con più angoscia che piacere.
Il sacrificio per l’arte
Il suo animo stratificato, deluso, amareggiato e traumatizzato dalla vita, ovviamente, non era di facile comprensione ai più. Tutto ciò si riversava all’interno della sua arte, che appariva così estremamente insolita, originale e immaginifica, come nel celebre dipinto «La notte stellata», oppure oltremodo simbolica, soprattutto nei suoi ultimi lavori.
Egli alternava momenti di profondo sconforto a fasi di modesta serenità che lo rendevano prolifico. Infatti, sebbene Vincent Van Gogh abbia iniziato relativamente tardi la sua carriera di pittore, a ventisette anni, e sia morto appena dieci anni dopo, è considerato uno tra gli artisti più fecondi di sempre.
Soltanto durante il suo soggiorno di quattrocentoquarantaquattro giorni ad Arles, per esempio, eseguì circa duecento tele e un centinaio di disegni. Purtroppo, però, le sofferenze di una vita difficile ebbero infine il sopravvento. Il 27 luglio del 1890 tentò di uccidersi sparandosi al petto, per poi morire qualche giorno dopo tra le braccia dell’amato fratello Theo. Alle parole di quest’ultimo che, negli ultimi momenti, tentava di rassicurarlo su una sua possibile guarigione fisica, egli replicò: «Ma la tristezza durerà».
Ed è proprio a causa di questo dolore interiore che mi piace pensare a un Vincent Van Gogh consapevole di quanto il suo genio sia ora universalmente apprezzato, come nell’episodio di Doctor Who. Il suo vivere per l’arte, sacrificarsi per essa e credere, nonostante tutto, nella sua forza, alla fine, non sono stati vani. Senza tale sacrificio, infatti, oggi non potremmo godere dell’immensa bellezza che ha generato in vita.
L’immagine di copertina è tratta da Wikimedia commons