Violenza contro le donne: il problema non sono gli uomini, ma la cultura
Il 25 novembre si avvicina: sarà un 25 novembre inevitabilmente diverso dal solito, alle manifestazioni e i cortei in piazza si sostituiranno, nella migliore delle ipotesi, le dirette Instagram a tema e qualche articolo dedicato sui giornali. Per chi non lo sapesse, il 25 novembre è la giornata internazionale contro la violenza sulla donna, una giornata che ci dice molto della società che siamo, ma soprattutto su quella che ancora non siamo riusciti a costruire.
Secondo i dati raccolti dall’Istat, durante i mesi del primo lockdown in Italia sono state effettuate 5031 chiamate al numero verde nazionale anti violenza e stalking, il 73% in più rispetto a quelle registrate nello stesso periodo l’anno precedente. Sono dati allarmanti non solo perché confermano il primato della violenza dentro le mure domestiche, tanto nel mezzo della pandemia quanto negli anni precedenti, ma anche perché fanno luce su una dura verità: se sei donna fai parte di una minoranza, non in termini numerici evidentemente, ma pur sempre di un gruppo sociale che si trova costretto a vivere all’interno di un sistema che semplicemente non è stato costruito per te.
Nelle scorse settimane è arrivata all’attenzione dei giornali lo scandalo che ha coinvolto Alberto Genovese, imprenditore di diverse start-up di successo e ora indagato dallo Procura di Milano per stupro. Della dinamica dell’accaduto deve importarcene relativamente, quello che basta sapere è che si è trattato di una violenza sessuale di genere, che ci sono solide prove che lo confermano e che, nonostante ciò, nel riportare la notizia diverse testate giornalistiche hanno sbagliato su ogni fronte. Per Il Sole 24 Ore Genovese è «un vulcano di idee e progetti che, per il momento, è stato spento», in poche parole una vittima, di un processo che lo vede accusato di stupro, ma pur sempre una vittima.
La questione è semplice: nel descrivere Genovese, uno stupratore, riferendosi al suo genio creativo, o delineando il coniuge che uccide la moglie come il «buon marito che l’ha uccisa per il troppo amore», come si è letto spesso in passato, si sta operando una narrazione tossica e gli effetti che ne conseguono non sono da meno. L’identificazione del violentatore con l’immagine del «gigante buono» e della vittima con quella di «una che se l’è cercata» viene da sè come in un perfetto ribaltamento di ruoli. È necessario comprendere una volta per tutte che nell’atto della comunicazione e della scelta del linguaggio con cui descrivere un determinato avvenimento c’è molto più di una semplice selezione tra sinonimi: la percezione di chi riceve il messaggio è plasmata sulla base di quell’insieme di vocaboli in modo del tutto causale.
Sia ben chiaro che il problema non sono gli uomini: il problema è la cultura che li cresce nel privilegio e che ha sempre una giustificazione pronta se si mettono nei guai. Proprio come fa una madre con i propri figli. È una cultura che ai propri figli maschi chiede fin dalla nascita di essere cacciatori e non femminucce creando così i presupposti perché si manifestino atti di evidente discriminazione, nei casi estremi di violenza, contro le donne.
Studentessa universitaria di Sociologia e aspirante giornalista.
Mi cimento in articoli di attualità e cultura con un occhio di riguardo per le questioni sociali.
Bell’articolo Beatrice, molto interessante la tua analisi sul linguaggio
Ho trovato l’articolo molto interessante perché sposta un po’ il punto di vista “ordinario”. Ciò non toglie che, come genere maschile, dobbiamo impegnarci in prima persona per modificare, appunto, la “cultura” in cui siamo cresciuti.
Riporto, tangenzialmente ai temi dell’articolo di Beatrice Caniglia
, un estratto di un libro che ho trovato interessante. Un linguista, parlando della discriminazione della donna, riporta i risultati di una ricerca dove emerge “che oggi in Italia ‘oltre un terzo dei 18-23enni sostiene che una donna che mostra apertamente interesse verso il sesso mette a rischio la sua reputazione’. Questi autori raccolgono dati statistici e numerose testimonianze dimostrando che ‘si vive ancora in una società in cui la donna deve rappresentarsi agli altri come comunque poco desiderosa di sesso, poco vogliosa di pratiche sessuali un po’ alternative, di trasgressioni […]. Una donna che viene rappresentata come particolarmente disinibita o vogliosa viene considerata purtroppo, anche inconsciamente, non esplicitamente, poco bene.’ Si rifletta sul fatto che ciò che avviene in maniera inconscia è più importante e più decisivo di ciò che avviene in maniera consapevole, perché non si è in grado di metterlo in discussione. Il linguaggio, costante cartina al tornasoledelle reazioni psicologiche e culturali, dimostra queste cose a modo suo. Esiste in italiano l’equivalente maschile di puttana? Cioè una parola che, traendo una metafora dalla designazione di un mestiere, contenga una così violenta carica spregiativa? Assolutamente no. A tutti quelli a cui si fa questa domanda viene in mente il termine gigolò (peraltro non italiano!), che designa lo stesso mestiere ma – guarda caso – non può essere usato come generica offesa perché non è connotato in maniera altrettanto dispregiativa.” (Edoardo Lombardi Vallauri, Ancora bigotti. Gli italiani e la morale sessuale, Einaudi, pp. 13-14)